Cos’è stato deposto nel sepolcro delle grotte vaticane insieme al corpo del mite e colto papa Benedetto XVI?
La memoria mi riporta a un giorno del lontano ottobre 1977, quando in san Pietro, nell’attesa dell’arrivo di Paolo VI, pochi mesi prima della sua morte, all’improvviso partì un applauso (moderno Amen liturgico!), stava entrando il neo cardinale e arcivescovo di Monaco, Joseph Ratzinger.
Fui colpito dal sorriso amabile e da quella singolare distinzione propria degli uomini avvinti dal pensare, ma soprattutto fui sorpreso dalla gioia che la sua presenza suscitava nelle persone lì raccolte.
L’omelia di quel giorno fu memorabile per me. Paolo VI celebrava il suo 80° compleanno e fece un’affermazione che non dimenticai mai: Sì, Roma ho amato, nel continuo assillo di meditarne e di comprenderne il trascendente segreto, incapace certamente di penetrarlo e di viverlo, ma appassionato sempre, come ancora lo sono, di scoprire come e perché «Cristo è Romano» (Cfr. DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia, «Purgatorio», XXXII, 102).
Credibile o no, non ebbi mai il coraggio di affrontare il padre Dante per comprendere il significato delle sue parole, così inconsuete e… non presenti nel Credo.
Forse se non fosse intervenuta la rinuncia (così destabilizzante…) al ministero petrino di papa Benedetto, sarebbero rimaste un pensiero fluttuante come tanti altri non destinati alla piena consapevolezza.
Dante sta concludendo il suo faticoso pellegrinare nel Purgatorio e intravede Beatrice la quale gli dice:
Qui sarai tu poco tempo silvano;
e sarai meco sanza fine cive
di quella Roma onde Cristo è romano.
Beatrice gli preannuncia che a breve sarà con lei in Paradiso di cui Roma è simbolo.
Dante si discosta da una tradizione consolidata che vedeva in Gerusalemme il Paradiso. Questa scelta è dettata da un motivo al contempo religioso e politico. Roma richiama l’Impero Romano, non solo quello antico pagano, ma quello immaginato nell’era cristiana: il sussistere del delicato equilibrio tra potere spirituale (Pietro) e potere politico (Imperatore). Quell’Impero doveva essere in terra ombra del Paradiso.
I continui richiami dolenti lungo tutta la Comedia della corruzione di questo equilibrio, dello sbilanciamento dovuto dalla ricerca di supremazia da parte del papato sono la cifra profetica di Dante.
Quel giorno mi venne affidato un seme che, a mia insaputa, sarebbe cresciuto più avanti nel tempo.
Nel sepolcro di san Pietro abbiamo inumato un’epoca del papato iniziata con la riforma gregoriana che pare così lontana ma che procura problemi ancora oggi. Gli eventi non dimenticati del ‘gran rifiuto’ di Celestino V, della cattività Avignone e poi lo scisma d’Occidente, il Concilio di Trento, il Vaticano I e, terribile in ultimo, il Vaticano II.
Lentamente i cristiani di Roma, non senza la propria ignavia, hanno lasciato che la Fede si ripiegasse sulla figura del papa e oggi, l’eredità di Cristo, il tesoro più grande, è trattata e bistrattata come proprietà personale di un uomo solo, prigioniero della sua propria ideologia e dei suoi cortigiani.
L'ipertrofia del ministero petrino.
Dobbiamo dire addio a tutto questo!
Siamo in un cambiamento d’epoca che dovrebbe essere affrontato con molta preghiera, non tanto perché il nostro pregare spesso povero e disatteso possa ottenere chissà cosa, ma come insegna l’esempio del Poverello d’Assisi[1] (quello autentico!): la preghiera in primo luogo cambia colui che prega.
Benedetto XVI sembrava che volesse porre mano a un tentativo, debole e vano, di ricordare che il ministero del papa non si radica in un ego sproporzionato, ma è un umile servizio di riverenza.
Proprio in quel giorno del lontano 1977 ci fu anche un’altra esperienza pregnante: ebbi occasione di avvicinare Paolo VI in un contesto quasi privato.
Nulla aveva annunciato il suo ingresso, ma a un tratto sentii di dovermi voltare perché qualcosa era mutato.
In quel momento era entrato un uomo minuto e solitario, che a guardarlo ispirava tanto rispetto quanto è quello che un figlio deve al proprio padre[2], entrai nel mistero della riverenza.
Cos’è la riverenza se non la naturale conseguenza di ciò che Dio insegna all’uomo? Quando Dio vide che Mosè si era voltato per guardare, Dio lo chiamò dal roveto: “Mosè! Mosé!". Rispose: "Eccomi". E [Dio] disse: “Non avvicinarti! Togliti i calzari dai piedi, perché il luogo sul quale stai è terra santa!». e continuò: "Io sono il Dio della [casa] di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe". E Mosè si nascose la faccia (Es. 3, 4 – 6a).
Come esortava il Poverello d’Assisi che voleva che si dimostrasse grande riverenza alle mani del sacerdote, perché a esse è stato conferito il potere di consacrare questo sacramento. Diceva spesso: “Se mi capitasse di incontrare insieme un santo che viene dal cielo e un sacerdote poverello, saluterei prima il sacerdote e correrei a baciargli le mani. Direi infatti: Oh! Aspetta, san Lorenzo, perché le mani di costui toccano il Verbo della vita e possiedono un potere sovrumano!”»[3].
La riverenza era qualcosa di profondamente legato al corpo del papa[4], naturale per secoli, sebbene affievolita negli ultimi decenni. Invano il papa Benedetto XVI ha cercato di rammentarla e ravvivarla con l’uso delle insegne pontificali. Segno di un’auctoritas con la quale si esprimeva, per quanto è dato a un uomo mortale, il munus petrino in nome di Cristo.
Era troppo tardi e forse la strada scelta, assumere elementi dalla tradizione secondo una valutazione in fondo personale, non esprimeva l’armonia di un processo storico che è sempre stato continuo[5]. È bastata, infatti, un’apparizione al balcone di san Pietro per cancellare tutto in un attimo.
In quel sepolcro in san Pietro non abbiamo sepolto solo un uomo venerando e mite, ma anche la riverenza, virtù necessaria che si invera in un animo posseduto dal timor Domini.
In eredità abbiamo una superba espressione della pastoralità al culmine della sua fioritura.
Altre oggi sono le insegne papali: una tonaca volutamente trasparente per mostrare la normalità dei pantaloni.
La normalità, uno dei miti ecclesiastici del nostro tempo. Astuta furbizia che nasconde un uso e abuso dell’autorità divenuto ormai potere personale autoritario e arbitrario.
Come un capriolo che, smarrita la madre in fuga per un grande pericolo, è preso in braccio da un improvvido passante attratto dalla bontà del proprio gesto e ignaro, forse, di quale destino fatale impone in tal modo al piccolo animale privandolo dell'odore materno.
Così il cristiano, smarrito per quella rinuncia, si è trovato nell'abbraccio di lupi travestiti da lupi[6] che al profumo di Cristo[7] hanno sostituito l'odore delle pecore.
L'odore, non l'amore! Le parole hanno un’anima...
Odore (colmo dell’ironia!) contraffatto come tenerezza e misericordia per accattivante illusione di tutti.
Com’è potuto accadere tutto questo?
La risposta comporta un lungo e tormentato cammino.
Una lettera che nel gennaio 2022 il papa Benedetto XVI inviò al neo eletto abate dell’abbazia di Triors in Francia potrebbeò essere occasione di riflessione.
Il papa scrive all’abate: naturalmente lei non vuole affermare la sua propria volontà, ma fare in modo che la comunità dei monaci viva secondo la Regola di San Benedetto, rimanendo così una cellula viva di tutta la Chiesa. È essenziale che lei non persegua un progetto personale, ma che, come abate, sia il servitore dell'unità che trova la sua misura nella fede della Chiesa e quindi, in ultima analisi, nel Signore.
E’ naturale un’esortazione da parte di un uomo venerando a uno più giovane che si avvia ad assumere una posizione di preminenza nella chiesa.
Sembra che riecheggino le celebri parole della Regola di san Benedetto Abbas qui praeesse[8]. L’autentico compito di colui che guida, infatti, è di non deesse, sed quodammodo praeesse[9]
Forse…
Come possiamo, però, non riandare con la mente alla ormai sbiadita ermeneutica della continuità? Nave che non prese mai il largo perché appariva come il tragico tentativo di intervenire sul processo vitale della crescita e del divenire per sostituirlo con una fabbricazione[10]. Proprio ciò da cui, come cardinale e papa, aveva messo in guardia dal fare.
O pensava con quelle parole all’abate a ciò che vedeva succedere in questi anni nella sede di Pietro, così sconvolgente che a gran fatica possono suonare realistiche le parole di san Giovanni Bosco: Quando alcuno voleva raccontare qualche cosa riguardante i Sacerdoti, tosto premetteva o doversene parlar bene, o tacere affatto, perché erano Ministri di Dio[11].
A noi non spetta che il silenzio…
Un altro luogo della lettera spinge alla riflessione. Il papa scrive: Nella confusione di oggi, è importante non difendere una teoria qualsiasi, ma vivere semplicemente nella fede della Chiesa, secondo la tradizione trasmessa nel suo Credo e nella Regola di San Benedetto. Questo atteggiamento di base dà mobilità nelle piccole cose e fermezza nelle cose essenziali. L'interpretazione di questa tradizione nella vita abituale di Solesmes ci aiuta anche a non imporre agli altri opinioni private o cose inventate da noi stessi, ma a lavorare insieme per il grande edificio della santa Chiesa.
Hanno grande dolcezza queste parole, ma sono meno semplici di quanto possano apparire a prima vista. Se è vera la necessità di non abbarbicarsi su una teoria qualsiasi (e tante oggi travagliano la chiesa), vivere semplicemente nella Fede della chiesa è più facile a dirsi che a farsi, anche perché l’invocata tradizione trasmessa dal suo Credo, non appare più oggi così certa, comprensibile e condivisa.
In quante chiese oggi si cambia il Credo per proprio uso e consumo?
E poi a quale Credo ci si riferisce?
L’ipotesi migliore è pensare che sia quello ripetuto (più o meno stancamente) nella Messa domenicale, ma oggi quanti ci si riconoscono e ne sono veramente interessati?
Ne siamo lontani, sempre di più per ciò che ogni giorno ci tocca vedere e ascoltare.
Infine è vero: bisognerebbe accogliere l’esortazione del papa a non imporre agli altri opinioni private o cose inventate da noi stessi.
Ne avrà parlato al suo successore?
La lettera risulta a tratti straniante perché i nostri sentieri sono oscuri.
Se è vero che la complessità ben articolata aiuta a difendersi dalle trappole in cui cadiamo quando tentiamo di ricondurre a una sola causa, spesso errata, il risultato di fattori diversi, è anche vero che le parole, soprattutto quelle suggestive, spesso confondono.
Siamo nella morsa della confusione, con una chiesa soffocata da continui cambiamenti che la rendono un deserto bruciato dalla noia. Un deserto che può essere terribile solo come un deserto può esserlo.
***
Gravato da questi pensieri, quel giorno giungo in ritardo alla mensa monastica di cui sono ospite e siedo vicino a un monaco che già consuma il suo pasto dopo aver servito la comunità.
Siamo soli e avvolti nel silenzio mentre davanti ai nostri occhi, attraverso la grande finestra, il tramonto dorato in fondo alla valle quasi sembra voler trattenere, come dita luminose, gli ultimi raggi di sole sul profilo immutabile delle montagne.
Mi accorgo che il mio compagno, ormai concluso il suo desinare, attende calmo che anch'io termini la cena per non espormi all'imbarazzo del ritardo.
Infine ci alziamo e, compiuto privatamente il ringraziamento, con gesto gentile e sorridente mi sottrae il compito delle stoviglie.
Lontano dalla ribalta retorica delle periferie e dei muri da abbattere, nella più radicale semplicità, solo per Grazia, questo monaco anonimo con gesto cortese mi indica, inconsapevole, l'avanguardia della cristianità.
[1] Fonti Francescane: scritti e biografie di san Francesco d'Assisi, cronache e altre testimonianze del primo secolo francescano, scritti e biografie di santa Chiara d'Assisi, testi normativi dell'Ordine francescano secolare / a cura di Ernesto Caroli, Padova : EFR, 2009, n° 702: Mentre crescevano i meriti di Francesco, cresceva pure il disaccordo con l'antico serpente. Quanto maggiori erano i suoi carismi, tanto più sottili i tentativi e più violenti gli attacchi che quello gli moveva. E quantunque lo avesse spesso conosciuto per esperienza come valoroso guerriero, che non veniva meno neppure un istante nel combattimento, tuttavia tentava ancora di aggredirlo, pur risultando quegli sempre vincitore.
Ad un certo momento della sua vita, il Padre subì una violentissima tentazione di spirito, sicuramente a vantaggio della sua corona. Per questo, era angustiato e pieno di sofferenza, mortificava e macerava il corpo, pregava e piangeva nel modo più penoso. Questa lotta durò più anni. Un giorno, mentre pregava in Santa Maria della Porziuncola, udi in spirito una voce: "Francesco, se avrai fede quanto un granello di senapa, dirai al monte che si sposti ed esso si muoverà ".
"Signore, -- rispose il Santo ---qual è il monte, che io vorrei trasferire?". E la voce di nuovo: "Il monte è la tua tentazione ".
"O Signore, --rispose il Santo in lacrime--avvenga a me, come hai detto". Subito sparì ogni tentazione e si sentì libero e del tutto sereno nel più profondo del cuore.
[2] Dante, Purgatorio, I, 31-32.
[3] Tommaso da Celano, Vita seconda, FF 789.
[4] Agostino Paravicini Bagliani, Il corpo del papa, Torino, Einaudi, 1994
[5] Joseph Ratzinger, La festa della fede. Saggi di Teologia liturgica,. Jaca Book, Milano 1984, pag.. 87
[6] Forse abbiamo mancato alla preghiera perché il papa non fuggisse davanti ai lupi? Solo Dio sa.
[7] 2Cor. 2, 15-17 Poiché il buon odore di Cristo siamo noi a Dio, e per quelli che si salvano e per quelli che periscono. Per gli uni odore di morte per loro morte; per gli altri odore di vita per loro vita. E per tali cose chi è che sia tanto idoneo? Perciò non siamo come molti che falsificano la parola di Dio, ma con sincerità, come da parte di Dio parliamo dinanzi a Dio in Cristo.
[8] RB 2, 1-2a Un abate degno di stare a capo di un monastero deve sempre avere presenti le esigenze implicite nel suo nome, mantenendo le proprie azioni al livello di superiorità che esso comporta.Si crede infatti che in monastero egli tiene il posto di Cristo.
[9] Non dobbiamo assolutamente mancare, ma presiedervi piuttosto. Benedetto XV, In praeclara summorum, 30.04.1921.
[10] Citato in Peter Kwasniewski, New Liturgical Movement, 01/02/2023.
[11] (Giovanni Bosco), Cenni storici sulla vita del chierico Luigi Comollo morto nel seminario di Chieri ammirato da tutti per le sue singolari virtù, Scritti da un suo Collega. Torino dalla Tipografia Speirani e Ferrèro vicino alla Chiesa di s. Rocco, 1844