Anni fa andai a Subiaco, non in primo luogo per il Sacro Speco, ma per il desiderio di intercettare e condividere gli scorci che avevano formato l’anima di san Benedetto, ascoltare i suoni di cui era stata riempita la sua solitudine, assaporarne gli odori… e anche per adempiere un compito di gratitudine accarezzato a lungo: recarmi sulla tomba del benedettino Silvestro Mario Dogliotti (1886 – 1923).
Il cimitero monastico, poco sopra lo Speco, è veramente un piccolo gioiello di pace che riporta all’esperienza fondante la vita di Benedetto.
Da cento anni le ossa di Mario Dogliotti, l’amico di una vita, conosciuto solo tramite poche lettere[1] che trasmettono il calore di una presenza, riposano in questo paesaggio spirituale.
Dogliotti appartiene a quella generazione che ha affrontato, con esiti diversi, l’epoca che ebbe nella prima guerra mondiale il suo esito drammatico.
Alcuni di loro (come ad esempio Carlo Michelstaedter, Guido Gozzano, Renato Serra, Giuseppe Ungaretti) si distinsero per la singolare capacità di saper mettere in parole il dramma della storia di quegli anni.
Mario era nato a Torino nel 1886 in una famiglia molto agiata, suo padre era il legale di Casa Savoia; crescendo aveva seguito ottime scuole, l’Università.
Alto, biondo, occhi azzurri, bellissimo lo ricorderanno i testimoni.
Nel periodo universitario era emersa la sua inquietudine che lo spingeva, talvolta, a prendere un cavallo e nella tempesta, correre a capo scoperto, fino allo smarrimento di sé.
Il gruppo degli amici comprendeva Gozzano, Salvator Gotta, Emilio Zanzi e altri, quelli appunto della matta brigata che frequentavano rumorosamente il Circolo della Cultura, tentativo torinese di eguagliare il celebre fiorentino Gabinetto Vieusseux circolo di letterati e scienziati. Tra i fondatori a Torino Luigi Einaudi, ma c’era anche Lombroso. Il gruppo di amici lo frequentava ‘sfrontatamente’ arrivando a scherzi goliardici, in fondo bonari, come quello di scambiare i cappotti per cui, ad esempio, Lombroso, piccolo di statura, si trovò un giorno ad indossare un cappotto che strusciava per terra…
Nonostante i timori paterni, Dogliotti si era laureato e il padre gli aveva pagato un giro per l’Italia come premio; giro, durante il quale, nell’ottobre 1909, era capitato a Subiaco.
La quiete e la bellezza naturale dello Speco gli consentirono di distendere l’anima, gli diedero un principio, un’indicazione per riassorbire i colpi della giovinezza.
Certamente ebbe colloqui con l’abate, ma non sembra che ne sia rimasta traccia. L’abate Lorenzo Salvi (1879 – 1964) poco più anziano di lui, che oggi sarebbe giudicato un rigido, era dotato di un indubbio spessore. Un testimone qualificato come lo scrittore Eugenio Corti, che lo incontrò nel periodo terribile dopo l’8 settembre del ‘43, fu colpito dalle sue parole in quei giorni burrascosi, tanto da riportarle in un suo libro: ricordate però che il mistero della reversibilità è qualcosa di meraviglioso, e forse un giorno dalle sofferenze di altri potrebbe venire grazia soprattutto a voi… non odiate nessuno, mai; forse il tedesco che muore nello sforzo di farvi del male, muore anche per voi.
Il clima monastico che Dogliotti conobbe era tutt’altro che superficiale e connotato inoltre da un desiderio di ritorno alle radici, con tutti i rischi e le illusioni che questo può comportare, ma un tentativo che poneva al centro della vita la ricerca di Dio, non la semplice ripetizione di un modo di vivere qualcosa ormai tramontato.
Non fu immediato l’ingresso in Monastero; la cultura, l’ambiente di provenienza dovettero creare qualche difficoltà e, nelle poche lettere rimaste, se ne coglie la traccia.
Ma era la sua via, nella quale trovava unificazione e pacificazione e con un’evoluzione singolare: la maturità spirituale che troviamo al suo ingresso tra i benedettini, non è dissimile da quella degli ultimi giorni. Lungo la sua esistenza si osserva continuità di contenuti e slanci.
E’ un dato interessante e incoraggiante. Non sono gli slogan e le figure carismatiche che tanto contraddistinguono e falsificano i nostri giorni a fondare qualcosa di duraturo. Spesso sono solo occasioni per raggirare l’angoscia provocata dal peccato originale, Dogliotti scopre invece la realtà di un luogo dove intravede la possibilità di dar spazio alla crescita dell’uomo interiore (Eph 4,3).
Il luogo offre alle persone che ci vivono la dominici schola servitii (RB, Prol. 45) in cui esercitarsi ad accettare e vivere pienamente il carattere provvisorio della realtà, del suo essere cangiante, transeunte che invece, al contrario, ci sforziamo di contraffare a noi nostri stessi occhi, vuoi riempiendoci la giornate di cose da fare anche buone…, vuoi innalzando monumenti alla gloria di Dio…
Nella sua più antica lettera rimasta, scritta ai genitori nell’ottobre 1909, si legge: In un angolo, nella mezza luce delle lampade e dei ceri di altare, mi ero rannicchiato in un concentramento di straordinario alchimista avevo messo dinazi a me un’anima come la mia e […] provavo delle misture, delle combinazioni e delle reazioni, con tanti ‘semplici’ che pure avevo a portata di mano la scienza, la speranza, la gloria, la gioia, l’amore, la disperazione.
Cosa sarà passato nel suo animo in quei momenti? Quali immagini, quali ricordi? Come ne avrà parlato ai suoi amici?
Non sappiamo nulla, però ne conosciamo gli effetti. Una vita condotta in modo luminoso come monaco, una pacificazione dell’anima che aveva impressionato l’amico Gozzano che ne lasciò traccia: Oggi credo nello spirito, sento, intendo in me la vita dello spirito [...]. Non so se sia questa la mia via di Damasco, né se mi porti in avvenire a una fede dogmatica, ma sento che questa è la via della salute [...]. La stessa fede nel positivismo che attraversammo, ci insegna che il positivismo fu un’illusione, che vane furono le apologie della materia e della matta bestialità [...]. La parola anima non fa più sorridere gli uomini di intelletto, come appena vent’anni or sono, ma rende curiosi e meditabondi.
Ciò che Dogliotti ottenne con quella straordinaria alchimia fu di riuscire a far tacere le voci discordanti dentro di sé e armonizzarle in una nuova realtà che lui viveva come contatto con le cose nella loro nudità.
Quel giorno a Subiaco mi sono seduto sul gradino della sua tomba contemplando la valle dell’Aniene. La sua magnificenza richiamava il centuplo evangelico là dove, decontaminati dalle passioni che ci affliggono, come san Benedetto, possiamo tentare di osservare, per quanto possibile, la vita nella sua oggettività assoluta e, allora sì, festeggiare la Risurrezione che è sempre annuncio che ci viene da fuori. Lo racconta san Gregorio Magno riferendo di quel prete che ricordò a san Benedetto il giorno di Pasqua.
Mi tornavano in mente in quel momento le parole di Dogliotti: In quel punto, sperato e disperato, voluto e temuto per due anni di faticoso lavoro, di sconforto e speranze troppo alte, per non parere illusioni, con una grande consolazione mi invase uno stupore meraviglioso; capovoltosi ogni valore della vita passata sorrisi al mio dolore come a un amico; non riconobbi più quella che era stata la mia gioia.
Sorridere al proprio dolore è anche capacità di non fissarsi sull’addio al tipo di vita che ci si poteva immaginare, ma continuare a portarne nel cuore l’essenziale perché, come ricorderà in un’altra lettera, fare professione di cristiano vuol dire rappresentarsi, senza eufemismi, la realtà: la via stretta […] perché il ‘Maestro buono’ ci è andato innanzi; sorridere alla vita e alla morte per fede in Lui e per amor suo.
Sorridere…
Qualcuno ha parlato di un Diario d’amore che Dogliotti annotava prima dell’ingresso in Monastero, così come di una lettera d’amore inviata durante il viaggio che doveva portarlo a Subiaco per sempre. Nulla è rimasto, ma le tensioni interiori, il bisogno di far ordine, anche se solo provvisorio, al proprio mondo interno, al proprio modo di essere nel mondo rimane sotto traccia.
Il compito dell’uomo è tirar fuori l’anima dal suo nascondiglio.
La più umile forma nella quale si sia rivelata quella che è la sola vita dell'anima, non è che rinnegarsi, perchè il più perfetto amore non esclude i suoi principi necessariamente manchevoli e difettosi. Scrive in un’altra lettera.
Per lui la vita monastica prima di ogni altra cosa è vita; significativa solo se subordinata al Vangelo da cui deve illuminarsi (Dogliotti terrà come prezioso soprattutto il Vangelo di san Giovanni che volle farsi donare, con dedica, dalla madre), per il resto l’uomo rimane tale, ma, in certi momenti limite, può farsi conoscere e conoscersi, dare credito alle proprie parole.
In occasione del terremoto di Avezzano scriveva ad esempio alla famiglia preoccupata, con un pizzico di ironia: l’impressione di quel momento vuoi? […] un frastuono strano, una rabbiosa vibrazione dei murie,infine, una porta che, con quel poco di premura, si ostinava a non volersi aprire. Ma la vera impressione fu di sentirmi nelle mani di Iddio. Fu la stessa impressione, credo, dell'energia scatenata che mi condusse istantaneamente al pensiero lucido, calmo, semplice che, nella montagna, che fremeva, come nelle mie ossa rimesse a discrezione del primo macigno che cascasse, come nell'anima, dove sentivo che si svolgeva un mistero più grande di tutti quelli della natura, era una volontà di Iddio che si compiva. Come, proprio io con quel che ne so della 'volontà di Dio', potevo averne paura e come, qualunque fosse, non l'avrei voluta anch'io?
Non invita, forse, san Benedetto alla necessità di non perdere mai di vista la propria fragilità (RB 64,13)…
Dogliotti fu molto legato alla famiglia (e agli amici) e nelle sue lettere s’intravede lo sforzo di attutire il colpo della sua scelta, porlo sotto una luce comprensibile, condividerne la gioia per quella che appare una vita di rinuncia e abnegazione di cui si era fatto carico con la speranza di poter come rapire in questo modo il segreto dell’esistere.
E si può dire che si era addossato tutto questo per amore dell’Amore.
In concreto era presa di coscienza e risposta a un disordine interiore, essenziale più che morale.
In ciò che ci è rimasto di lui, lettere e testimonianze, possiamo percepire come ogni aspetto della vita sia stato sottoposto a un impegno di riequilibrio, facendo convivere cose vecchie come la passione del violoncello, la pittura, con cose nuove molto concrete: cura delle api, piccoli lavori di falegnameria ecc.
La marginalità della nostra esperienza è un aspetto dell’esistenza non facile da tollerare, ma che Dogliotti sembra vivere con leggerezza. Ci affanniamo per dare un rilievo esclusivo alla nostra vita e ci agitiamo molto per questo, del resto è una vera ascesi accettarne la sostanziale irrilevanza (ma non agli occhi di Dio).
Le famose parole osservate i gigli del campo (Mt 6, 25-33 [28b]) dovrebbero intessere la vita del cristiano, se farne non l’unica possibile preghiera.
Mario Dogliotti comprende che la Pax benedettina non è un messaggio da giornata della pace, ma la tranquillità dell’anima, propria di un’esistenza umbratile e, se è concesso un anacronismo, di moderazione.
Sedersi nel silenzio del cimitero benedettino di Subiaco è immergersi in questo mondo appartato, liberandosi dalle immagini con cui ci bombardiamo attraverso i social e che possono apparire lì per lì come epidermiche, ma che in realtà distorcono la mente rendendoci irreali.
Tornano alla mente le parole forti che Dogliotti scrisse quando venne a morire improvvisamente e in modo solitario l’amico, suo e di Gozzano, il poeta Carlo Vallini (1885 – 1920): non rimpiango niente. Lo squallore stesso di questa fine improvvisa, nella solitudine, mi fa pensare, mi suggerisce con insistenza come Cristo l'abbia lasciato abbandonato dagli uomini per averne lui solo misericordia.
Se è vero – Oh! Si è vero – che il Signore, che ha fatto misericordia a me l’ha fatta anche a lui – quello che è ora il suo fuoco e il suo Purgatorio: non averlo conosciuto prima, averlo cacciato, Lui che batteva alla porta; non avergli saputo offrire altro omaggio che quello troppo indiretto del più piatto disprezzo di una vita senza di lui.
Parole altrettanto forti, e oggi del tutto incomprensibili, le adopererà quando la prima guerra mondiale diventa una realtà con cui fare i conti: non è più ora, il momento discutere nè dell'opportunità politica, nè del valore morale di questa campagna: una volontà più grande di tutte le umane segna queste ore per i popoli, terribili ore di giustizia. Agli individui, ora a noi italiani, come ai tedeschi, ai francesi, ai turchi e a tutti gli altri, il dovere rimane uno solo e ben netto: ubbidire concordi. Questo il nostro dovere - Iddio farà il resto.
Riflettere su questo suo pensare ci mette a contatto con quanto abbiamo perso di consistenza cristiana nel ventesimo secolo, aperto con una guerra e finito con un concilio che ha dilaniato, distrutto, abbattuto ciò che neppure la rivoluzione francese aveva osato sperare di abbattere. Veramente ci siamo ritrovati poveri o, per parafrasare Ungaretti, il progresso che si è manifestato nei cambiamenti ecclesiastici non è andato di pari passo con quello morale e spirituale.
Nell’espistolario di Dogliotti c’è un aspetto da non sottovalutare, ben descritto in una lettera del 1916. Tornato dalla guerra dopo sei mesi perché riformato definitivamente. E’interessante il racconto che fa di quei momenti: Prima di rimettermi con lena al lavoro, scrive, ho destinato a lasciarmi semplicemente vivere, nella pace del Monastero.
Lasciarsi semplicemente vivere è più facile dirsi che farlo. La frenesia è accucciata alla nostra porta; lui sembra averla superata, ma come si esprime la sua pacificazione?
Lo spiega bene: le rondini grigie passano e ripassano in graziosi voli dinanzi alle mie finestre – io levo gli occhi da un gran libro pieno di un’amabile antica sapienza […] faccio, in uno slancio dell’anima a Dio, una benedizione festosa. E mi sento il compagno delle rondini e dei poveri, dei boschi e delle erbe resinose […] Si vive così al Monastero, di benedizione in benedizione … benedizioni di preghiera, di lavoro, di sonno che riposa e di cibo che va in tanto sangue. Così è buono vivere e Dio vuole forse da noi altro che la gioia? Al mio ritorno ebbi un’accoglienza tutta di feste e di abbracci e se rivedevo anche un po’ della mia storia […] addirittura con tenerezza vi ho trovato non un posto, ma il mio posto, ben riconoscibile a tavolo con una doppia razione di pane. Che fare? Mettersi a piangere? Io semplicemente dopo quelle, ne ho chiesto ancora una terza, perché era così buono anche all’anima quel pane.
Si resta meravigliati leggendo questi pensieri; qui e in altri luoghi delle lettere ricorrono parole con cui siamo stati ossessionati in questi ultimi anni, ma ne siamo usciti con un senso di confusione e ambiguità perché le parole ci sono state sporcate, dimentiche di Dio.
Vite così singolari come quella di Dogliotti dovrebbero aiutarci a ricordare i doni di Dio, ad avere il coraggio di non abbarbicarci in un’obbedienza irresponsabile dove le nostre anime sono ridotte a schiavitù in una nuvola di parole, mentre la Fede, come una dea antica, è cacciata dalla sua casa.
La vita di Mario Dogliotti fu breve, come quella di molti dei suoi coetanei che la bruciarono in guerra o con il suicidio. La sua scelta di aderire al Vangelo, che lui trovò attraverso la regola di san Benedetto, fu subito una vita che ben presto doveva diventare senza resistenze neppure verso la morte.
Questo è uno dei suoi grandi lasciti, come un messaggio in bottiglia.
A un mese dalla morte scrive alla madre: Ti dico che non sono mai stato felice come ora ... che la mia vita si è tutta assorta in uno sguardo al mio Signore che viene ... che ... mi porta alla vita eterna […] vorrei che almeno non per prima cosa t’interessassi, mi chiedessi del mio corpo, ma se il Signore è con me a darmi forza, e quanto è grande la speranza di cui mi parla, e se è cara la sua Mano quando si posa sulla mia fronte […] e io allora ti risponderei che sì, che sì!, quello che ti ho già detto, che non sono mai stato così felice, che mai la mia vita è stata così ricca di ‘giovinezza’ come ora!
La vita di Dogliotti possiede una carica di esemplarità? Non so se è importante e forse lui ci farebbe una risata sopra. Solo in apparenza si gioca sulla scelta monastica perché in sostanza la vita di un monaco è una vita come tutte le altre. Il punto focale è che si viva una vita piena, qualunque essa possa essere, che riposi sull’adesione, sull’abbandonarsi alla chiamata di Dio.
L’appello di Dio è come una seconda creazione.
L’offerta della salvezza, lo sguardo interrogativo di Dio: Si vis, se vuoi essere perfetto vendi ciò che hai (Mt, 19,21) è rivolta a ciascuno.
Il difficile è saper corrispondere al momento di grazia nel quale ognuno sente nel profondo del suo essere questa chiamata; ecco perché sono molti i chiamati, pochi gli eletti.
Vendere ciò che si possiede, fossero anche illusioni, si paga a caro prezzo: e talvolta il tipo di vita scelto più che alla chiamata di Dio corre il rischio di essere solo l’ultima di quelle illusioni…
Mario Dogliotti l’aveva ben inteso quando in una lettera, già incontrata, afferma che fare professione di cristiano vuol dire rappresentarsi, senza eufemismi, la realtà.
[1] Mario Silvestro Dogliotti, ...la mia via, Tipografia Editrice Santa Scolastica, Subiaco 1971.