Nasconditi per un momento,
finché non sia passato lo sdegno.
(Is. 26, 20b)
Qui è unico, indivisibile
il canto degli uccelli e l’aurora.
(Varlam Šalamov, Al falò)
Quell’estate invece delle vacanze abituali mi ero limitato a qualche gita fuori porta, così quel giorno ritornai in un paesino fuori dalle rotte turistiche, già visitato e mai dimenticato.
Molti anni prima la canicola mi aveva spinto verso il grande fiume seguendo un cartello stradale adocchiato in precedenza e per vincere la noia ero stato attratto dalla prospettiva di una visita a un borgo medievale.
Inaspettatamente mi sarei imbattuto in una storia che mi avrebbe portato lontano, verso altre frescure.
Mentre camminavo per le piccole strade del borgo, l’occhio era caduto sulla targa di una casa all’apparenza dismessa, dov’era indicata la presenza di una sinagoga.
La porta aperta e deserta invitava, m’infilai dentro e incontrai un tesoro.
Non c’erano persone, solo un silenzio accogliente che offriva tempo.
Ben inteso, non trovai proprio nulla oltre i muri; a rigore non pareva esserci neppure la sinagoga che pur era segnalata; una minima indicazione in un quadro sulla parete spoglia portava alcuni ragguagli su quella che supponevo essere stata, vista la nudità del luogo, chissà come e quando, la sinagoga di S…
In quel vuoto apparente, percepii un fremito interiore, quasi come se i muri mi appiccicassero dentro il loro silenzio povero ma solenne; segni che solo mi sfioravano nella loro fuggevolezza. Il luogo era semplice, senza pretese, di un’umanità ormai trapassata in cenere fredda nelle nostre case impregnate dalla pulizia delle linee razionali moderne. Mi guardavo intorno; tutta la pace alla quale rimandavano quelle poche stanze non era grassa; gli ebrei erano stati costretti a raggiungere il piccolo paese perché colpiti dal divieto di soggiornare nella città. Ne era derivata una grande sobrietà. Alla fine, comunque, l’esilio era stato senz’altro migliore della persecuzione che spesso e volentieri si era abbattuta sul popolo di Israele, ma era pur sempre una ferita, un qualcosa che incide l’anima e si perpetua nelle generazioni che attraversano il tempo.
Sì, a chi aveva costruito quei muri, era stato offerto di racchiudere un po’ di pace operosa tra quelle quattro mura, come una manna insperata; sempre poca e incerta per quanti nascevano sotto il segno della Torah.
Andavo con la memoria a quel tipo di quiete, già incontrata e assaporata in alcune piccole canoniche di paesi fuori mano, in parte abbandonati, in campagna o in alta montagna; ma quella era una pace diversa perché frutto di un bene, la Fede cristiana, e un tempo dimentico da secoli di persecuzioni e frutto di un buon vivere. Ricordi di felicità, quando la felicità era una giornata qualunque intercalata dal suono delle campane che salutavano Dio nella semplicità delle persone e dei luoghi.
Intensa armonia ricoperta di rimpianto, soprattutto quando il pensiero andava ad altre canoniche non così fortuitamente fuori mano e cadute sotto la scure del concilio; Moloch che tutto aveva abbattuto: grassi cattolici come poveri diavoli.
In quella casa di riunione degli ebrei, nel silenzio di quella sinagoga, sembrava quasi di toccare con mano ciò che succede quando si abbatte la scure di un potere avverso. Gli spazi, a volte gli unici sopravvissuti, s’intridono in solitudine di una calma malinconica e faticosa da portare.
I persecutori, infatti, come leggevo nelle poche righe del quadro, avevano lasciato il loro ricordo; i persecutori non passano mai invano.
Le emozioni si dibattevano dentro di me quasi ostacolando l’ascolto di quel silenzio sonoro che mi chiedeva di sostare per ascoltare i suoi racconti, ma non ero ancora pronto per oltrepassare il muro di divisione tra intuizione e comprensione.
Sebbene quel giorno, un po’ a malincuore, fossi partito fantasticando su un ritorno a breve, erano di fatto trascorsi anni.
… e si ripresentò l’occasione; la sensibilità raffinata di questi decenni aveva suggerito il restauro della sinagoga e la creazione di un piccolo museo interno creava una sospensione, un cono di luce su altre storie, impensabili.
Sulla strada antistante alla piccola sinagoga alcune foglie erano cadute sebbene l’aria non portasse traccia di vento. Mi domandai se avrei ritrovato l’atmosfera gustata nelle stanze che un tempo avevo incontrato vuote e non rimasi deluso. Mi sentivo come atteso.
Era stato predisposto un piccolo percorso di visita che includeva l’accesso al piano superiore. M’inoltrai sulla scala di antichi gradini di legno. Nel salirla riemergeva via via un’intensa emozione, come fossi sul punto di incontrare qualcuno che non si era trovata in precedenza l’occasione di salutare a modo e di cui era desiderato un supplemento di vicinanza per approfondire una traccia che aveva esercitato un forte richiamo.
Fu come aprire una porta su un passato tanto inaccessibile, da non potersi neppure immaginare e che attendeva discreto il suo turno per tornare alla luce.
Provai meraviglia scoprendo che la sinagoga era sempre lì, intatta nel tempo e custodita come una reliquia.
Come un lungo sospiro, tutte le emozioni rimaste in allerta negli anni di attesa per quel ritorno, si quietavano scorgendo dietro la porta scura la scola vera e propria.
Lo splendore composto di semplicità e premura che intravedevo, rimandava a un’educazione al nascondimento e un bisogno di protezione per la paura costante di ciò che gli uomini riescono a infliggersi gli uni agli altri.
Spesso siamo costretti a costruire recinti per proteggere un tesoro e forse la nostra vita non è altro che un andare necessario e ramingo tra remote carceri…
Un’ampia finestra illuminava l’atrio antistante al portale intravisto e le chiome dei grandi platani secolari del parco vicino con i loro rami sembravano legare al cielo e alla terra vera la preghiera e lo studio dei tanti che lì erano stati e che di quella sua luce sommessa avevano beneficiato.
Entrai.
Quello era stato spazio di studio e preghiera, di voci e brusii.
Ora tutto era quiete e il silenzio impalpabile sembrava composto dei gemiti segreti di Dio sul suo popolo perseguitato e disperso.
Un’improvvisa spossatezza m’indusse a sedermi su uno degli scranni presenti nella sinagoga. La mia mano iniziò a scorrere il legno antico in un gesto che sembrava di saluto per quanti l’avevano frequentata e più non erano.
Una piccola lampada perenne posta sopra l’arca ricordava che ancora in quell’armadio erano conservati i rotoli delle Sacre Scritture (Torah). Soprattutto rammentava quell’altra lampada più antica rimasta accesa nel tempio di Gerusalemme durante un terribile saccheggio.
Segno di speranza perché, nonostante l’ultima dispersione, la sinagoga svolgeva ancora alcune funzioni religiose, richiamando ebrei che anche da luoghi lontani la raggiungevano per innalzare una benedizione intrisa di testimonianze della vita dei loro padri.
Durante la persecuzione, la costante preoccupazione della comunità era stata di porre in salvo gli oggetti preziosi del culto per far sì che l’osservanza dei precetti non andasse del tutto smarrita e fosse custodita e tramandata; era occorso, quindi, in primo luogo dissimularne la presenza e si fece quello che si poté.
Qualcuno però, come qualche volta accade, fece qualcosa in più, qualcosa che apre uno squarcio di umanità.
Lessi parole che mi scossero il fondo dell’anima.
Durante il periodo nazista, in un paese non molto distante, due donne cristiane, madre e figlia, avevano abbandonato la loro casa e nell’intento di dissimularne l’esistenza, si erano trasferite a vivere nella vicina sinagoga sperando, con la presenza del loro corpo, di impedire le fiamme che avrebbero potuto bruciare ogni cosa.
Un gesto che poteva costare loro la vita, oltre alla scomparsa della sinagoga.
Una storia e un esempio toccanti che rendevano impossibile essere tristi, sebbene provassi un gusto d’inutilità dolce e amara, come se la sola reminiscenza della cenere comunque dissecchi.
Ho ammirato luoghi e oggetti quel giorno ma quel racconto segnò il mio ritorno, come un ricordo che mi aggrappava a quel luogo.
In seguito si sarebbe presentata l’opportunità di penetrarne il senso per cui allora ero ancora acerbo.
Avrei voluto fare tante domande, ma preferii tacere: ogni cosa riprende il suo posto, passo dopo passo. L’importante è tollerare l’attesa; l’essere venuto, il sapermi lì, il potermi ripensare in quel luogo rispondevano già a molte domande.
Pian piano il resto sarebbe arrivato da sé.
Trascorse altro tempo e un giorno, mentre percorrevo a piedi la strada verso casa, intravidi un amico uscire dalla sinagoga della nostra città; ci incrociammo. Non era la prima volta che lo vedevo da quelle parti; il mio sorriso era un saluto, ma anche un tacito interrogativo.
Mi domandavo come mai così di frequente mi capitasse di incontrarlo in quei paraggi.
Colsi al volo l’opportunità di compiere un pezzo di cammino insieme ed ero curioso, ma non volevo essere indiscreto e non ebbi bisogno di accennare.
Come leggesse un libro aperto, il mio amico, quasi scusandosi, mi disse: “Sai, frequento la sala di lettura nella sinagoga”.
“Ti occupi di qualcosa di particolare?” gli domandai.
Stette un po’ in silenzio e poi mi disse: “Non è stato facile ottenere il permesso, ma è un posto davvero speciale.” E aggiunse: “Credo che da almeno un secolo su quella scala che sale all’aula superiore non si siano fatti lavori e questo rende in qualche modo vivi tutti i pensieri e le emozioni delle persone che hanno salito quegli scalini perché sembrano rimasti lì, come sospesi in un’atmosfera rarefatta, come una folla di persone pronte a prendere parola dopo tanto tempo, per chi ponga attenzione.”
“Anch’io frequento ogni giorno la biblioteca”, mi sentii dire. Era un rispondere banale che tentava di padroneggiare il disagio che per strade sconosciute si era messo in moto dentro di me.
Il mio amico, seguendo un suo pensiero, riprese: “… è che per me …”.
Seguì una pausa di silenzio, capivo che era in difficoltà; a voler essere troppo discreti talvolta si manca di discrezione...
Pochi passi e ci saremmo salutati.
Sembrava sul punto di riprendere la parola e pensai che forse volesse sviare il discorso verso il congedo, ma si fermò e, guardandomi, mi disse: “Vedi, io quando sono lì, mi siedo, apro un libro e l’anima finalmente pare riesca a trovare riposo. Quando tutto crolla ci vuole un luogo per la memoria che è l’ultimo orizzonte di letizia rimasto”. Dopo una pausa riprese: “E’ un luogo solido, di attesa, di accoglienza del dolore, non una barca continuamente sbattuta per scorgerne il punto di rottura e infliggere il colpo fatale”.
Mi fermai in attesa un po’ tramortito dalle sue parole; lo conoscevo come un cristiano convinto.
Quasi raccogliendo fili di pensieri che solo lui fosse in grado di dipanare, si voltò e mi disse: “...Ho bisogno di ritrovare una prospettiva, ne abbiamo bisogno. Ormai siamo allo smarrimento dell’anima. Qui mi sembra di avere un posto per attendere, per non spegnere la lampada”.
Le sue parole mi scorrevano in percorsi interiori come rancura di cui non sapevo o non volevo avere accesso e pensai che non ci diamo da fare abbastanza da avvicinarci e conoscerci meglio.
Continuò: “Cercavo un luogo appartato, non mi bastava più ricoprirmi la faccia con la manica. Sentivo la necessità di frapporre fra me e gli altri qualcosa perché mi sento ferito.
Un cristiano rimane ferito da quello che oggi accade nella chiesa...”.
Non ricordo più con precisione con quali parole ci lasciammo e mentre rientravo a casa, mi era compagna la tristezza delle sue parole grevi.
Alcuni hanno la pelle contorta di fronte a una chiesa così ripiegata su stessa da trovare il proprio senso e piacere nel lacerarsi gli arti a morsi e nutrirsi a prezzo del suo corpo.
Tutto questo perché sul mondo, guardato con bramosia, ha lasciato i suoi occhi avvinghiati tanto da far scorrere nelle sue vene il sangue al contrario.
Il mio amico soffriva anche per l’indifferenza che spinge tanti, che neppure ne sanno realmente la ragione, ad applaudire alla persecuzione nei confronti di chi ha il torto di serbare nella memoria ciò che oggi non è più considerato opportuno ricordare!
Attraversare queste lingue di fuoco l’aveva spinto a cercare una qualche sosta o riparo in una sinagoga, luogo ben avvezzo alla persecuzione.
Mi ricordai in quel frangente le fiamme che sempre inseguivano i figli di Israele.
Compresi che ancora illuminano la via che va a Dio e che è sempre la stessa, come anche il vuoto che duramente ci tenta.
Quelle fiamme iniziavano a sciogliersi dentro di me in un peso dolce e amaro, senza delizia né durezza.
Mi si allargava lo sguardo e potevo infine contemplare con riposata comprensione come per Fede, per Speranza e per Carità due donne, protese in un estremo gesto di salvezza, avevano rivestito la Torah con il loro corpo, abbracciando la piccola sinagoga nella pianura sperduta.