CONTENUTI: I. NEL SILENZIO / UNA PAROLA… – II. IL PREAMBOLO DELLA FINE (DELLA CHESA?) – III. LA DIFFERENZA ESISTE, È LA ALTERITA' CHE SI COSTRUISCE – IV. GLI INTERNI DELL’ANIMA HANNO LE DOMINANTI DEL FUOCO – V. LA FONTANA SGORGA BENCHÉ SIA NOTTE.
1. Nel silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abissoi[1]
La perdita segna l'esistenza umana fin dal grembo materno perché tutto è soggetto al deterioramento e cammina verso il medesimo luogo (Eccl 3, 19d-20a).
Potremmo affermare che la vita dell’uomo oscilla tra perdita e guadagno[2], immagine di quella perdita descritta da Genesi dovuta all’illusione di guadagnare l’onnipotenza (Gen 3, 5). Dopo la caduta, Adamo sperimenta la vergogna che l’ha posto di fronte alla sua nudità, alla privazione di Dio (Gen 2, 8-9), all’incapacità di fidarsi della parola di Dio: dell'albero della scienza del bene e del male non mangiarne: perché in qualunque giorno tu ne mangerai, senz’altro morrai (Gen 2, 17).
A fronte di un bisogno radicato di denaro, potere e gloria che, compulsivamente, cerchiamo di accumulare per sconfiggere la precarietà – anche con la scusa della lode di Dio –, il Vangelo ci ricorda che occorre rinunziare a tutto ciò che si possiede, che non serve a niente guadagnare il mondo intero se poi si perde l’anima…
La prospettiva cristiana, la Fede, ci insegna che la vita è affrontare il rischio di esistere, mettendo ordine nella provvisorietà, fluttuante e fugace, un caos di pieni e di vuoti che non è definitivo.
La sequela di Cristo si spende nell’incessante fatica di imparare la vita eterna attraversando la caducità dell’esistenza, non per esorcizzarla (non fanno forse così il mondo e la chiesa quando invadono la scena esibendo se stessi?), ma per percorrerla – questa caducità – come la via privilegiata di accesso a Dio.
È un mondo non toccato dalla Fede quello che affronta la vita dalla prospettiva della sua durata – breve o lunga – limitata dalla nascita e dalla morte, con la sua incomprensibilità a volte dolorosa e il suo alternarsi di gioia e tristezza, lotte e riposo.
Oggi il discepolo di Gesù è immerso in un’epoca di ira perché il volto della Chiesa appare sfigurato da ideologie perniciose e narcisistiche[3] incapaci di accettare che i contenuti della Fede trasmessi dalla Tradizione possano essere una formulazione sufficientemente positiva e stabile a problemi rilevanti della psiche cristiana.
Sono più di due secoli che la modernità mette a dura prova il cristianesimo. Dal Sillabo (1864) al vaticano II (1965) nessuna delle soluzioni elaborate dalla mente degli uomini (di chiesa) ha evitato la secca dell’irrilevanza della fede in Cristo in cui la barca si è arenata.
Potremmo quasi dire, riguardando i precedenti periodi bui della chiesa, che non ci siamo serviti un trattamento con i guanti, ma la scure più affilata.
Come già per l’antico profeta di Israele, appare quasi minimale il compito odierno del cristiano: rimanere solitario ed in silenzio per poter elevarsi sopra di sé (Jer, 3, 28) e imparare a distinguere tra le immagini elaborate nella mente e riflesse sul volto della Chiesa (che sono la porta regale dell’apostasia) e il Corpo di Cristo che è la Chiesa.
Fare silenzio, dunque, e ascoltare la Presenza scavata nella nostra vita, come un abisso che parla [all'ex?] cristiano dentro di noi, ripristinando il muscolo atrofizzato della Fede.
Per non essere più padroni, ma servi, come Cristo, gli uni degli altri, nell’Amore.
2. Il preambolo della fine (della chiesa?).
"Senti dolore, Frodo?" disse Gandalf tranquillamente mentre cavalcava al fianco di Frodo. «Ebbene sì, lo sento» disse Frodo. «È la mia spalla. La ferita fa male e il ricordo dell'oscurità mi pesa. È successo un anno fa a oggi."[4]
Di recente, a New York, la casa d’asta Sotheby’s ha battuto una grande tela di forma ovoidale visceralmente bucherellata.
È una delle cinque opere pittoriche composte da grandi telai ovali contraddistinti da costellazioni di buchi e/o squarci e/o graffiti che Lucio Fontana (1899-1968), pittore, ceramista, scultore, nel 1963 presentò con il titolo: "La fine di Dio"[5].
Evidentemente “la fine di Dio” è un bene su cui si può scommettere se adesso è stata venduta per 20,6 milioni di dollari e nel 2000, l’ultima volta che fu valutata, fu acquistata per 708.321 dollari.
La fine di Dio in questi ultimi decenni ha incrementato la solidità del suo valore...
Fontana la creò all’inizio degli anni ’60, ai tempi della dolce vita. L’orizzonte pareva illuminato da grandi progressi scientifici. La tecnica usata per creare quest’opera, definibile come ‘distruttiva’, voleva rinviare alla fede nei progressi tecnologici.
Si riteneva, non poco a torto, che era un dovere epocale ribaltare le antiche concezioni dell'universo ormai obsolete, cioè pervertire, deliberatamente, l’immaginario codificato nei secoli anche dalla teologia (e dalla mistica cristiana).
L'infinito, la cosa inconcepibile, la fine della figurazione, il principio del nulla[6]. Così Lucio Fontana spiegava la propria creazione artistica.
Dio è invisibile, Dio è inconcepibile. Dunque, oggi un artista non può presentare Dio su una poltrona col mondo in mano, la barba… E allora ecco che, anche le religioni, devono aggiornarsi con le scoperte della scienza.
Oggi è certo, perché l'uomo parla di miliardi di anni, di migliaia e migliaia di miliardi di anni da raggiungere, e allora, ecco il vuoto, l'uomo è ridotto a niente... L'uomo diventerà come Dio, diventerà spirito.
Allora, io faccio un gesto, credo in Dio, faccio un atto di fede… Dunque: Dio è nulla, ma è tutto, no?[7]
A mente fredda, su tutto questo entusiasmo, forse la prudenza avrebbe dovuto suggerire maggior cautela e qualche perplessità. Le riflessioni di Fontana riecheggiano, pur con un linguaggio diverso, lo sguardo sul mondo della mai dimenticata costituzione apostolica Gaudium et spes (7.12.1965) del vaticano II, il che è tutto dire.
Durante il concilio, negli stessi anni, i vescovi e periti riuniti in concilio non compresero la dimensione tragica sottesa all’auto percezione di profezia da cui supponevano di essere guidati, l’artista, invece, tragicamente e con fiuto la indicava come espressione precipua dell’humus culturale nel quale anche loro erano immersi: la fine di Dio.
Fino a quel momento era condivisa la Fede che la Chiesa, l’insieme dei credenti nell’Incarnazione, Passione Morte e Resurrezione di Cristo, vive in ogni suo membro, è il Cristo stesso, ovvero parte di quel Corpo di cui Lui è il capo.
Uno sconvolgimento come quello che seguì al concilio – distruzione di convinzioni profondamente radicate – è sempre accompagnato da trasgressioni contro il linguaggio. In questo caso, la parola “chiesa”, tradizionalmente intesa come una scorciatoia per tutto ciò che concerneva la Fede è stata riproposta per coprire ogni tipo di invenzione della nostra mente intorno a Dio.
Dopotutto, se la chiesa si affloscia sul “me” (il mondo mi accetterà se io lo accetterò), e se questo non solo è da benedire ma è più soddisfacente del rapporto vitale tra il Creatore e la sua creatura, allora perché non privare la parola ’chiesa’ delle sue implicazioni condivise da sempre?
Perché non la chiesa popolo di Dio, la chiesa comunione e così di seguito fino ad arrivare alla chiesa ospedale da campo, la chiesa inclusiva, la chiesa ecologica e così via?
Una volta scartati gli aggettivi qualificativi, la parola stessa diviene un eufemismo, un flatus vocis lanciato a tutta velocità in una ‘primavera’ trasformata, a contatto con la realtà, in una mareggiata burrascosa.
Per non parlare dell’assoluta e tragica profezia di quei buchi e forature irregolari che anticipano quelli che, di lì a poco, avrebbero intaccato in modo irreparabile una liturgia quasi bimillenaria come quella cattolica.
I liturgisti, allo stesso modo del nostro artista, lavorarono a mani nude anche loro per realizzare una sorta di superficie lunare con il Messale, la Liturgia delle Ore, i Sacramenti ecc.
Forse Lucio Fontana l’avrebbe definito il “delitto perfetto” perché è un “delitto teologico” che trova compimento nel momento in cui s’immagina (si disegna) una porta ‘inclusiva’[8] che consente l’accesso al tempio e ne rappresenta la sua distruzione totale[9].
Crearono ex nihilo. Erano nuovi profeti, evasi dai loro contesti ecclesiali di cui avevano spezzato l’involucro, guardavano dall’alto, fotografando in volo la Chiesa con i loro libri scientifici[10]. Apostoli di una concezione di chiesa (finalmente liberata dall’eredità costantiniana) che annunciava la nuova epoca del Dio nella storia, di una pura spiritualità, pura teologia, pura filosofia cosmica[11].
“Ahimè! ci sono alcune ferite che non possono essere completamente curate", disse Gandalf.
«Temo che possa essere così anche per i miei», disse Frodo. “Non esiste un vero ritorno indietro. Anche se venissi alla Contea, non sembrerebbe la stessa cosa; perché non sarò più lo stesso. Sono ferito da coltello, puntura e dente e da un lungo fardello. Dove troverò riposo?”[12]
Quando si ha che fare con un crollo non si tratta tanto di tornare indietro, quanto di andare avanti, avendo cura di filtrare la propria angoscia, di non rovesciarne la crudezza nell’anima di chi abbiamo di fronte.
In questo modo non faremmo che contagiare gli altri, senza allontanare da noi l’origine della nostra sofferenza.
L’attuale cammino cristiano appare contrassegnato dalla confusione e dalla manipolazione della Fede perché quella Sede, stabilita per preservarla e difenderla, è stata trasformata in un inginocchiatoio dei dubbi, sul quale molte anime si schiantano, come falene che nella notte scambino la luce artificiale con quella del Sole.
Sono state rese opache le parole dell’Apostolo: non si può porre altro fondamento diverso da quello, che è stato gettato, che è Cristo Gesù (1Cor 3, 11).
Parole dopo parole, atti dopo atti, il dialogo[13] – la nuova divisa del cristiano – ha gettato la maschera, fidelizzato in un ascolto passivo (e nella quasi totalità dei pastori ‘terrorizzato’) dei fantasmi che popolano la mente di chi guida la Chiesa.
Figure che il Vangelo non esiterebbe a definire “Serpenti”[14], venuti a sfidare[15] la Fede nella Sede metaforicamente più peculiare.
La tentazione ammiccata e seducente è l'utopia di superare il contenuto del patrimonio della Fede, perché ormai ritenuto non più congruente con un mondo che ha abbandonato Dio, irridendo le istanze teologiche o semplicemente morali come pretese rigide da superare[16].
È sempre la medesima tentazione: Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: «Non dovete mangiare di alcun albero del giardino»?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: «Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete»». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gen 3, 1-5).
Magari avessimo a che fare con i Farisei del Vangelo! Noi non possiamo più seguire l’invito di Cristo perché non si può, né si deve fare, quello che costoro dicono, perché in realtà parlano solo di se stessi. Neppure possiamo fare ciò che fanno, perché sfideremmo il buon senso, oltre che Dio (cfr. Math 23,1-39).
Situazioni di questo genere si determinano quando tramonta la Fede e si apre lo spazio alle ideologie perverse che abitano nel cuore dell’uomo, così come si è visto nel XX sec., che prendono piede e si proiettano come ombre lunghe sulla Chiesa che sembra stia morendo[17].
Forse mai come oggi, però, si offre l’occasione benedetta per affrontare - ciascuno dalla sua posizione – le immagini di chiesa alle quali, talvolta, ci attacchiamo ferocemente.
Occorre imparare a osservare ciò che scorgiamo del nostro volto guardando la chiesa e… convertirci.
Come non esiste una persona del tutto integra, perché il peccato segna ogni figlio di Adamo, così neppure la chiesa che cammina nel tempo è stata esente da scelte corrotte e scellerate.
È destino dell’uomo sopravvalutare un ideale vagheggiato fino a renderlo talmente assorbente, da portarlo a distruggere tutto ciò che si trova sulla strada tra sé e il bene che suppone tale.
Cosa potrò fare di buono per avere la vita eterna (Math 19, 16b) domanda il giovane a Gesù.
Ormai del tutto secolarizzata, è pur sempre una questione di potente attualità perché incarna il desiderio di andare oltre se stessi, insito nell’essere umano.
L’uomo rimane sempre ai piedi dell’albero della conoscenza (Gen 2,9) cercando di coglierne il frutto!
Non è più in grado di vedere Dio perché la sua mente è troppo affollata di ospiti eterogenei e l’uomo si è convinto che Dio, se ci fosse, non sarebbe altro che la proiezione di parti di sé che sente irraggiungibili avendo scisso il corpo dall’anima o penosamente irraggiungibili (pensiamo all’ideologia della misericordia).
La verità, però, è che Dio si potrebbe vedere a occhio nudo e ciò che manca all’uomo, come ci è narrato nel secondo capitolo di Genesi, è la percezione corretta della nudità.
In Genesi leggiamo che la consapevolezza della nudità è frutto del peccato; ma l’uomo era nudo anche prima e ciò non era ostacolo nel vivere la relazione con Dio e, grazie al suo essere immagine e somiglianza, ne condivideva l’umiltà (Gen 2, 25).
Il peccato ha comportato la morte, una frattura insanabile per l’uomo, un crollo dal quale è impossibile riprendersi se non facendo un cammino a ritroso.
Quale sia il cammino è ben tracciato nel brano citato del Vangelo di Matteo: Gesù invita il giovane che l’ha interrogato a dar via tutto (per seguirLo).
I discepoli sono stupefatti: come si fa a dar via tutto?
È come morire a se stessi… Sembra di crollare dal di dentro.
A ben guardare, invece, morire a se stessi – come esito naturale della Fede in Cristo – è l’unico dono adeguato che possiamo fare alla vita per riconoscere e recidere ciò che, nascosto nel fondo dell’anima, non appartiene a Cristo, alla Verità.
È liberarci dai vestiti fasulli che ci impediscono l’intimità con Dio che porta con sé la certezza di aver incontrato qualcosa che intesse la vita.
La manipolazione della realtà che l’uomo ha messo in atto con la modernità è un tentativo di realizzare l’aspirazione a essere come Dio[18]. Si ripete la tentazione di Adamo, … non è cambiato niente!
Le ideologie mondane introdotte nella chiesa per un malinteso senso di aggiornamento, alimentano l’animo di tanti cristiani che sono bloccati così in una somma d’impotenze e, non infrequentemente, corrono il rischio di scambiare la salvezza con il raggiungimento dell’appagamento (secolare e/o religioso) in questo mondo, allontanandosi da Cristo.
Per essere in Dio, non dobbiamo trovare nulla di noi ma solo vedere noi stessi essere in Lui, non vedere, però noi, ma solo Dio[19].
È il nudo patire che occorre chiedere al Signore, l’Amato non amato[20].
3. La differenza esiste, è l'alterità che si costruisce.
Le nostre proiezioni sono facili da deporre sul volto della Chiesa, perché, come Cristo, la Chiesa è inerme.
Se c’è un fatto che ha distinto la Chiesa nei secoli è l’abuso che ha subito da parte degli uomini dell’apparato religioso come avvenne già per il Signore durante la Passione.
Con la Redenzione in primo luogo è risanata la volontà, spezzata sotto l’albero della conoscenza.
L’attaccamento a un ideale di chiesa, vuoi che sia sociologico come usa oggi, o dottrinale com’è stato in taluni casi nel passato, è il più classico esempio storico di proiezione ed è assai più sottile e pernicioso dell’attaccamento a beni materiali o affetti umani, perché è meno riconoscibile.
Atanasio di Alessandria (293-373) scrisse la più celebre biografia dell’antichità, raccontando la vita di Antonio (251-356) e facendone il padre del monachesimo, cioè rendendolo un campione della Confessio Fidei. In due parole si potrebbe dipingere in questo modo Antonio (secondo Atanasio): conduceva la vita a partire dal Dio invisibile, non trovava il fondamento nella propria forza e determinazione, ma nel Signore, fino a scoprire che non è la nostra Fede ad essere grande, ma Dio è grande.
Atanasio si presenta come il discepolo che ha intravisto la grandezza di Antonio: ha saputo ridisegnare un’alternativa significativa all’impulso a confessare la Fede tipico dei martiri nel desiderio dei monaci ad esseri atleti/asceti/filosofi del martirio interiore.
Attraverso le lotte terribili del deserto, Antonio/Atanasio ha insegnato che il deserto reale è solo immagine fisica di quello ben più arido dentro l’anima dell’uomo.
Atanasio aveva ricevuto un’educazione letteraria e teologica completa, ma al di fuori di un percorso accademico, come invece aveva svolto il suo grande antagonista Ario, la cui riflessione era profondamente radicata su modelli intellettuali intessuti di filosofia plotiniana e pensiero origeniano. Anche Atanasio, vivendo ad Alessandria, aveva subito il fascino di questa cultura, ma era riuscito tuttavia a prendere le distanze da un mondo colto ma astratto, compiendo un percorso di riconnessione con la realtà, fatto di legami con le diverse categorie sociali e con il monachesimo che si stava diffondendo.
La Vita Antonii inizia con un quadro che diverrà un modello agiografico, sul quale è necessario sostare lo sguardo:
… mentre, come al solito, si recava nella casa del Signore, meditava tra sé e sé, e considerava tutto questo: come gli apostoli avessero lasciato tutto per seguire il Salvatore […] Pensando a queste cose, entrò nella casa del Signore e accadde che proprio in quel momento veniva letto il Vangelo; e sentì il Signore che diceva al ricco: Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello che possiedi e dallo ai poveri; poi vieni, seguimi e avrai un tesoro nei cieli. Antonio, come se il ricordo dei santi gli fosse venuto da Dio stesso e come se la lettura fosse proprio per lui, subito uscì dalla casa del Signore, donò alla gente del suo villaggio i beni che aveva ereditato dai genitori […] si dedicò all’ascesi davanti a casa sua, vigilando su di sé e sottoponendosi a una dura disciplina.[21]
Antonio risponde a una parola che gli sembra detta in particolare a lui e che lo induce a iniziare un cammino che sarà connotato dalla preminenza della relazione con Dio.
Antonio/Atanasio si rivela un uomo che ha un rapporto semplice e diretto con Dio; non è alla ricerca di un padre spirituale per mediare il suo rapporto con il Signore, sceglie Dio e poi cerca un anziano da cui prendere esempio.
Lezione troppo spesso dimenticata nella storia, perché il desiderio/bisogno di dipendere è veramente una tentazione seducente per soddisfare bisogni frustrati.
È assai difficoltoso ascoltare Dio, gli parliamo addosso, costruiamo su di Lui ciò di cui riteniamo abbia bisogno, dimenticando che la vita cristiana è molto semplice, ordinaria, a volte persino banale.
Cercare una spiritualità che completi l'esistenza e le dia un senso, non è altro che cercare se stessi (ed era il limite della filosofia nella tarda antichità).
L’esempio di Gesù nell’orto degli ulivi dovrebbe essere il filo a piombo per misurare la rettitudine della nostra ricerca. Si tratta di offrire la nostra umanità a Dio e di accettare che Dio faccia il resto. Ci volgiamo a Dio così come siamo e a volte riusciamo ad essere presenti solo con il nostro corpo, nel silenzio.
Atanasio (il grande difensore della Fede[22]) nel versetto evangelico che fa ascoltare a Antonio, pone l’accento sulla peculiarità della vita cristiana come accettazione di una povertà non solo di ordine materiale, ma in primo luogo di carattere spirituale e che il deserto evidenzia: una mancanza profonda nella vita e a volte persino nella preghiera.
Inoltrarsi nel deserto con tappe che sempre di più allontanano Antonio dal villaggio in cui era nato [23] (ma anche come Atanasio nella sua difesa strenua della Chiesa) è accettare di non vedere mai qualcosa all’orizzonte.
Antonio comprende che la logica dell’ascesi cristiana è inversa da quella pagana: non trovare una soluzione e accettare l’apparente esaurimento, accettare di non vedere tutti i versanti della vita, accettare il nascondimento come sublimazione del martirio.
Antonio desiderava il martirio per esaudire la sua disponibilità a spargere il proprio sangue, nel deserto scopre il medesimo obiettivo del martirio: non occupare il posto di Dio.
Esiste una differenza tra noi e Dio, ma siamo inclini a negarne l’alterità.
La semplicità che caratterizza il monachesimo delle origini si modificherà ben presto (lo si nota già in Pacomio) in una teoria (e in una politica) del primato dell’assoluto di Dio, elaborando un’immagine di un Cristo regale, onnipotente, altissimo.
Non si riesce ad apprezzare la luminosità di quel mondo se non si è disponibili a comprendere che era pur sempre impregnato anche dell'ombra che accompagna le vite degli uomini.
Nasceranno grandi monasteri, spunteranno abati potenti.
La struttura stessa, che sosteneva questo impianto implicava grandi risorse e i benefattori, occupando uno spazio sempre maggiore, preso a considerare la chiesa come una pertinenza da amministrare secondo i propri interessi.
Insieme agli ovvi problemi di corruzione, ciò che maggiormente intaccava la Fede era il dar corpo a un’immagine di un Dio sempre più lontana dalle dinamiche della vita comune degli uomini.
La semplicità della chiamata personale di Antonio si era trasformata in un’esperienza ecclesiale fondata sulla potenza dei monasteri collegata a un’idea divina altissima ma che purtroppo si allontanava dal bisogno della povera gente che, da questa immagine, era lasciata sola o, peggio ancora, impaurita.
Nel primo millennio i cristiani (il clero soprattutto) coltivavano l’ideale della relazione con Dio come ritiro dal mondo e abbandono della vita sociale per dedicarsi esclusivamente a Lui.
Va da sé che questa ‘esclusività’ fu sempre assai relativa e diviene una narrazione che tende a essere compiacente. La semplice lettura di una qualunque cronaca di un monastero dell’epoca dimostra che i monaci erano interessati non poco alle vicende del mondo e alle sue pratiche sociali che connotavano quelle del monastero e, in taluni casi, erano anche assai praticate.
Si pensi solo alla questione dell’uso e dell’accumulo di beni e ricchezze che segnarono il monachesimo al punto da diventare uno degli elementi distintivi del suo collasso nel secondo millennio.
L’eroico tentativo della riforma cistercense di riportare il monachesimo a una semplicità di vita basata sul lavoro delle proprie mani durò appena una generazione.
Sebbene molto ammirata per il richiamo all’eroico sforzo e alla semplicità dei Padri del deserto, la radicalità della Certosa rimase una realtà di pochi, nell’Occidente della splendida Cluny,[24].
Nel primo millennio in Occidente ci fu un uomo che divenne un emblema della cristianità: Martino di Tours (316-397).
Fu soldato, monaco e vescovo, ma non divenne leggendario per nessuno di questi stati di vita che aveva perseguito.
Abbiamo due narrazioni storiche che ci tramandano la vita di Martino, quella di Sulpicio Severo (363-425) e quella di Gregorio di Tours (538-594).
Entrambi riportano il famoso episodio della “carità di Amiens”. Sulpicio in modo estensivo[25], Gregorio in modo assai sobrio nel suo De virtutibus sancti Martini[26].
Sulpicio è un letterato raffinato, la sua biografia di Martino, iniziata all’indomani della morte del Santo, si muove sulla falsariga di quella di Atanasio. Discepolo di Ausonio (310-395), vorrebbe essere un’asceta. È molto legato a Paolino di Nola (355-431), ma ha molte più esitazioni e difficoltà.
È piuttosto libero nel tracciare la biografia di Martino, probabilmente piega i dati storici in funzione del suo eroe le cui ombra (umane) cerca di lasciare sottaciute.
Affrontiamo il celebre episodio della divisione del mantello:
… un giorno, non avendo nulla indosso oltre alle armi e al semplice mantello di soldato, nel pieno d’un inverno che s’irrigidiva più aspramente del solito, al punto che moltissimi soccombevano alla violenza del gelo, gli accadde d’incontrare sulla porta della città di Amiens un povero nudo. E poiché questi pregava i passanti di aver pietà di lui, e tutti passavano oltre senza curarsi dello sventurato, quell’uomo ricolmo di Dio comprese che, siccome gli altri si rifiutavano a un atto di carità, quel povero era riservato a lui. Ma che fare? Non aveva null’altro che la clamide, di cui era vestito; infatti aveva già sacrificato tutto il resto in una uguale opera buona. E così, brandita la spada che aveva alla cintura, divise la clamide a metà, e ne donò al suo povero una parte, dell’altra si rivestì. Frattanto alcuni astanti si misero a ridere, poiché lo trovarono indecoroso in quella veste mutilata; molti tuttavia, di animo più saggio, si diedero a gemere profondamente per non aver fatto nulla di simile, poiché possedendo senz’altro più di lui, avrebbero potuto vestire quel povero senza ridursi alla nudità. Dunque, la notte seguente, essendosi abbandonato al sonno, vide Cristo vestito della parte della sua clamide, con la quale aveva coperto il povero. Gli fu ordinato di considerare attentamente il Signore, e di riconoscere la veste che aveva donato.
Martino quando incontra il povero aveva già sacrificato tutto il resto in una uguale opera buona. La carità, come condivisione dei propri beni e come capacità di vedere la necessità dell’altro e andargli incontro, era già stata compiuta (Math 25, 35-46).
Era un momento dell’anno nel quale moltissimi soccombevano alla violenza del gelo e a Martino restavano solo la clamide e le armi. Decide di fare a metà del poco rimasto, senza badare alle conseguenze: il ridicolo!
Martino appena coperto con un pezzo di mantello e ancora con le armi doveva appariva come mutilato; una figura grottesca sulla quale sfogare la rabbia repressa che molti provavano nei confronti dei soldati, gente in genere poco raccomandabile.
Alcuni si mettono a ridere; reazione difensiva di fronte a chi rinuncia a ogni difesa denudandosi.
Il nostro corpo nudo ci richiama il nostro limite e questo risulta disturbante.
Sulpicio aggiunge un particolare che colpisce molto l’immaginario del lettore: la notte che segue l’incontro con il povero, Martino lo sogna nelle sembianze di Cristo.
È stata un’esperienza di rilievo quella in cui è incappato, il sognatore rielabora le emozioni vissute e cerca di trovare loro un senso, ma nel medesimo tempo indica quali sono i temi che agitano il sottofondo della sua mente.
Come i Padri del deserto avevano ben capito, nel sogno si esprime, senza le difese della vita cosciente, ciò che veramente abita il cuore e dov’è il tesoro di ciascuno[27]. L’identità del catecumeno Martino è ormai consapevolmente cristiana. Quando Sulpicio conclude il racconto dicendo che Martino, diciottenne, decide di chiedere il battesimo, forza il dato storico in funzione del lettore, ma sostanzialmente non afferma il falso[28]. Martino deciderà di accedere al battesimo solo decenni dopo, al termine del servizio militare regolare. È, però, in quell’incontro che ha compreso che il suo sguardo collimava con quello di Cristo. È cristiano, perché in quel povero, lui, come ci testimonia il sogno, ha aderito alla prerogativa che distingue il rapporto tra Cristo e il cristiano: nessuna difesa reciproca, nulla se non l’intimità di un amore dai tratti condivisi.
Martino portava con sé clamide e armi – come precisa Sulpicio – e di queste non si dice nulla. Ci si aspetterebbe il loro abbandono: in uno scrittore così attento al dato scenografico sarebbe stato una naturale conseguenza.
Oltre a indicare indirettamente, appunto, la prosecuzione della carriera militare, sono una spia della profonda trasformazione avvenuta in Martino. Gli strumenti del potere, siano armi, denaro o altro, sono irrilevanti dopo aver incontrato Cristo. Sono solo gli strumenti di lavoro di un soldato.
Incontrando il povero, Martino non si è contemplato nell’atto di compiere la carità, cioè non ha avuto bisogno di sostenere di fronte a se stesso la propria immagine con la compiacenza di un bel gesto. Martino ha guardato la realtà con gli occhi del povero, è uscito da se stesso e non ha proiettato su di lui nulla di sé. L’irrisione di alcuni dei presenti deve essergli apparsa come un interrogativo su se stesso, su ciò che stava compiendo.
Il sogno lo porta a guardare il mondo con lo sguardo di Cristo, infatti, nel sogno Cristo indossa la sua veste. Come afferma Sulpicio all’inizio del capitolo, Martino è un vir Deo plenus, un uomo totalmente rivolto e ricolmo di Dio, nel quale la Spirito di Dio si manifesta perché non trova ostacoli difensivi (si pensi al caso di Stefano (Act Ap 6, 5/8; 7, 55).
Sarà un paradosso, la vita di Martino.
Il suo gesto lo renderà il santo più famoso in Occidente prima dell’anno mille, ma il suo culto inizierà fuori dalla sua terra e dopo circa cinquant’anni nella sua diocesi.
Il gesto di Martino è un segno di contraddizione non per aver chiesto il battesimo, non per la carriera militare portata avanti nonostante la poca considerazione che se ne aveva nell’ambiente cristiano dal quale si sentiva attratto; non per la scelta monastica, per il servizio episcopale a tratti segnato dallo stile militaresco che ne aveva connotato la personalità.
Nulla di tutto ciò.
Martino che si denuda e si riveste con la parte rimasta del mantello oltrepassa la nudità di cui parla Gerolamo (nudus nudum Chrsitum sequi) che rimane ancorata sull’”io” del penitente, immagine di un ascetismo che rincorre la santità.
Nel denudamento di Martino, i cristiani percepiscono quello di Cristo in croce, lì Cristo si è spogliato della sua divinità (Jo 18, 36: il mio regno non è di quaggiù), è oggetto d’irrisione (Math 27, 40b: Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!).
Martino si toglie l’unico pezzo di stoffa che lo ricopre e se ne riveste con la metà restante: quella parte che attira lo scherno è come l’anticipo paradisiaco di riparazione della caduta di Adamo.
Qui il simbolo s’incide nell’anima degli astanti: Martino - pur senza comprenderlo fino in fondo – non compie un gesto di ‘carità’, entra nella conformità a Cristo.
La coscienza cristiana lo apprende in un modo quasi subliminale e il gesto di Amiens diventa uno stigma indimenticabile della cristianità.
Durante la sua vita, l’attrazione maggiore per i cristiani ferventi era offerta dal monachesimo proveniente dall’Egitto e dal tentativo della sua imitazione.
In seguito, anche quel monachesimo si adatterà alle circostanze, riflettendo una monasticizzazione della chiesa in cui figure come Martino, monaco/vescovo, acquisiranno rilievo.
Di Martino verrà speso soprattutto un certo stile forte nella modalità di esercitare l’episcopato che diverrà un ideale da seguire nella chiesa latina. Giocato come una forza, in realtà fu la sua debolezza e, infatti, il potere politico dei feudatari lo userà, determinandone perciò la decadenza.
L’esito inevitabile delle proiezioni umane.
Nell’XI secolo, un papato in grande difficoltà, adottò un procedimento per riformare la chiesa che, con distanza storica, non si può che definire geniale. Lo stile monastico del primo millennio esprimeva un’armonia tra potere religioso (papa/vescovi) e potere politico (imperatore) che reggeva insieme la societas christiana. Il papato usò (forzandoli) alcuni aspetti giuridici del monachesimo in primis l’autorità dell’abate percepita come assoluta.
Il venir meno dell’equilibrio, per tensioni dovute alla gestione di beni materiali, determinò l’inizio di una lotta da cui in un primo momento la chiesa parve uscire vincente, ma in realtà, deprimendo il potere politico e imponendo la propria supremazia, pose le basi di quella scissione tra sacro e profano che avrà una lunga storia (sanguinosa) in Europa.
Il papato assorbì, dunque, in se stesso (o tentò di farlo) la supremazia, intaccando, però,l’autorevolezza che si fondava fino allora sulla preminenza spirituale, di connotazione monastica costruita con l’impero carolingio che, attraverso l’imposizione della regola di san Benedetto ai monasteri, aveva dato un volto unitario ai popoli latini.
Come si accennava, quest’operazione avrà diversi esiti, tra cui quello terribile di Avignone, preludio dello scisma e della riforma. Era l’alba di un’epoca che sentì l’urgenza di un ritorno all’apostolica vivendi forma[29] che riportasse vita e credibilità all’annuncio evangelico.
Epoca di breve durata. Già Dante nella sua opera affronterà la piaga che stava erodendo il tessuto ecclesiale, raccontando con quale ombra oscura quella chiesa attratta sempre di più dalla potenza mondana avesse invaso la mente dei cristiani e come pochissimi fossero riusciti a restarne preservati.
Qualche secolo dopo, nel 1500, in un’Europa dilaniata da visioni della chiesa in feroce contrasto tra di loro, in modo discreto, ma fermo, si porrà l’esperienza di un frate che avrebbe desiderato trascorrere la sua vita nel nascondimento e nel silenzio: Juan de la Cruz (1542-1591).
Giovanni della Croce vive sulla sua pelle ciò che al suo tempo erano divenuti gli ordini religiosi (e l’insieme della chiesa): una guerra sulle osservanze, sulla visione che ciascuno, singoli o gruppi, coltivavano in rapporto a Cristo e alla Chiesa. La chiesa diventa luogo dell’adesione alla lettera di un testo giuridico normativo, equiparato al Vangelo, ma pur sempre giuridico!
Egli imparerà e tramanderà che la distanza che divide il cielo dalla terra è un abisso, ma la sua misura è interiore, non fisica.
La riforma del Carmelo introdotta da Teresa di Gesù (1515-1582) aveva scatenato una guerra fratricida nell’Ordine (immagine di ciò che a quel tempo aveva scatenato la Riforma, a sua volta scatenata dalla corruzione seguita allo scisma dei tre papi e su, su fino al XI sec).
La notte del 2 dicembre del 1577, mentre Giovanni della Croce e il suo compagno[30] stavano riposando nella casetta dei confessori del monastero dell’Incarnazione, un gruppo di frati ‘Calzati’, con gente armata, scardina la porta e li prende prigionieri. Hanno l’appoggio del nuovo nunzio mons. Sega[31].
Giovanni subirà la carcerazione nel Carmelo di Toledo peri circa nove mesi. Flagellazioni, freddo intenso, caldo afoso, vestiti a brandelli, silenzio assoluto, ingiurie, allucinazioni, angosce ecc.
Si è definita prigione, in realtà non era altro che la "cavità di un muro". Una specie di bugigattolo di circa due metri per tre, senza altra luce né ventilazione eccetto una feritoia in alto che era larga circa a tre dita. Il locale era stato in precedenza adibito a gabinetto in cui mettere un vaso quando alloggiava qualche grande prelato e non le avevano dato più luce. Giovanni viveva in condizioni disumane, di assoluta incomunicabilità, fisica e spirituale, privato della possibilità di celebrare la Messa.
In quella reclusione, in quelle condizioni che misero alla prova la forza fisica, psicologica e spirituale di Giovanni, ebbe luogo il decollo della sua eccezionale esperienza mistica, perché il carcere fu il luogo della sua vera grande esperienza di Dio. Occasione di spogliazione, purificazione radicale e rinascita di sé.
Dapprima, senza carta, senza inchiostro, con pochissima luce, e senza altra lettura che il breviario, il prigioniero incideva versi nella memoria. In seguito, un nuovo carceriere più benevolo gli fornì gli strumenti per scrivere e così fu in grado di trasferire i versi su carta. Scrisse testi poetici tra i più meravigliosi della storia culturale e religiosa dell’umanità, che portò con sé, quando una notte di fine agosto, e con la complicità del carceriere, scappò dalla prigione di Toledo verso il monastero delle carmelitane scalze.
Tanta sofferenza in nome dell’osservanza di una regola religiosa!
Nella carcerazione Giovanni, autore della Salita al Monte Carmelo e della Notte Oscura, imparerà sulla sua pelle che lo spirito è il corpo e la carne. Come un albero da potare, l’anima pota lo spirito falciando il corpo, poiché tutto è fisico e si avvicina o allontana da Dio.
La prigionia lo pone con cruda concretezza nella Fede, i suoi versi (e la dottrina conseguente) nascono dall’essere passato indenne attraverso il reticolo di proiezioni che possono invadere l’immaginazione in una situazione condotta ai limiti dello stravolgimento.
Giovanni è indicato come l’esegeta della notte, descrive quanto possa essere cieco l’animo umano e fragile la luce interiore. Conduce a un confine estremo l’esperienza interiore cristiana, la purifica al limite del possibile. Tutte le scorie della mente sono eradicate sulla via che conduce a un luogo spirituale, il Monte Carmelo, dove finisce il mondo e inizia, su una piana deserta e oscura, l’aurora di Dio.
Giovanni comprende che prima di tutto l’uomo deve incontrare il nulla (nada), la perdita, solo dopo scoprirà il tutto (todo). Invertire questa diade sottace l’incapacità di sopportare che un giorno l’ego sarà reciso e precludersi un’esperienza basilare: il nostro amare non può essere che una risposta all’amore che abbiamo ricevuto.
Il todo che siamo portati a preporre al nada, rappresenta il tentativo di riempire l’angoscia del vuoto, della perdita insita nell’esistenza umana. È anche richiamo, grido di chi non riesce a piegare Dio (e la Chiesa) alle proprie passioni, come a dire: disegno io il volto di Dio, allora tutti (todos) potranno entrare.
È l’arroganza spirituale della nostra epoca di aggiornamento.
La terribile crisi della chiesa dei nostri giorni conseguente al suo patto con il mondo è l’accecamento di fronte al desiderio naturale di Dio, ritenuto, in conformità a categorie mondane, come un desiderio aggiunto allo spirito umano, mentre è costitutivo del suo essere.
L'essere umano è un essere che desidera Dio.
Il desiderio è normalmente desiderio di qualcosa. Desideriamo ciò di cui abbiamo bisogno, ciò che è essenziale per realizzarci come soggetti. A questo primo livello appartengono gli innumerevoli desideri orientati verso beni concreti che soddisfano i nostri molteplici bisogni, che servono da motivazione per tutto ciò che facciamo. Credere che il messaggio centrale/il compito primario della Chiesa sia lavorare alla realizzazione di questi desideri è rimuovere ciò che serba in profondità il mistero del cuore umano.
Sotto i molteplici desideri si nasconde un desiderio radicale che non dipende più dal soggetto, è prima di lui e nessun bene mondano è capace di placarlo, perché è Dio stesso.
Giovanni della Croce è conosciuto come il cantore del nulla[32], colui che ha disarticolato tutte le possibili illusioni che possono attraversare la mente di un uomo religioso. C’è un particolare da tenere presente: il suo carcere è in un convento. Tuttavia, per quanto bizzarre le immagini di chiesa che i frati potessero coltivare, tutti – loro e Giovanni – erano saldamente convinti della realtà di Dio.
Quando, però, viene meno la Fede condivisa, cosa succede?
È il nostro pane quotidiano.
Bisogna allora capire bene qual sia il nostro carcere. Non è lo stare in una chiesa soffocante che cambia ogni giorno la sua dottrina, come quel legislatore che, di fronte a un processo che lo potrebbe incriminare, cambia a piè sospinto le regole del processo per poterne usciere indenne[33].
Il nostro carcere è la tavola dei peccatori[34], per dirla con un altro testimone d’eccellenza: Teresa di Lisieux (1873-1897).
Prima ancora della consapevolezza di essere seduta a quella tavola, Teresa aveva intuito che la dottrina di Giovanni non lambiva quella notte/tenebre in cui era sprofondata[35]. Il mondo di Giovanni è una realtà in cui la Fede ha ancora rilevanza. Teresa è entrata nell’epoca dello smarrimento della Fede, il tempo della fine di Dio.
Il nulla che conosce Teresa è l’incapacità dell’uomo moderno di poter connettersi con la Fede.
A questo vuoto che sente terrificante, Teresa risponde scoprendo, in un tempo rigorista, la via dell’amore di Dio dove è possibile ancora interloquire con gli uomini e per il quale non esiste limite. Ne aveva già scritto san Bernardo: la misura dell’amore di Dio è amarlo senza misura[36].
Solo quella è la via regale per liberarsi da tutte le immagini che si frappongono tra noi e Dio, per ritornare in qualche modo a un’innocenza che permetta di vedere Dio. Al buio.
Teresa lo comprende, da sola; non ci sono priore, non ci sono preti o direttori spirituali[37]. Il suo direttore è Gesù. Le devozioni abituali diventano quasi tormenti.
È l’esplorazione di un niente ancora più radicale, una tappa sul cammino della Fede verso l’adesione totale del nostro essere a Dio.
Riprende e medita una poesia di Giovanni della Croce, Glosa sul Divino (1584/1586):
la cosa che più stimo
è che l’anima si veda
senza aiuto e con aiuto[38].
Teresa ne propone una chiosa nella sua Glossa sul divino[39] in cui emerge come il cammino di Fede che sta percorrendo non preveda alcun appoggio apparente, ma un abbandono totale che, durante la sua agonia sembrerà ripetere le fasi del crollo della comunione con Dio che Adamo aveva prima della caduta.
Il crollo della comunione con Dio dell’uomo contemporaneo.
stimo presso Lui vedere
e sentire l’anima mia
senza Appoggio appoggiata!
La fede in Teresa non è tanto un buio totale, quanto lo scontro con il venir meno delle certezze che fino allora animavano la Chiesa. Lei attraversa, in un Carmelo sconosciuto, ciò che la Chiesa attraversa nel suo e nel nostro tempo.
Non se ne difende, non le appartengono le tesi della chiesa del suo tempo, lei side alla tavola dei peccatori, si direbbe seduta su nessuna sedia, come invece fecero gli uomini di chiesa proteggendosi dietro a ideologie rassicuranti, appoggiata senza Appoggio, senza Dio.
Come i peccatori.
Dio non sembra essere un appoggio. È sola, abituata a non soffermarsi su se stessa, spinta da Dio a non soffermarsi sul suo nulla. Cos’è il nulla se non il peccato?
Dio “è”, il nostro nulla/peccato “non è”.
È il cammino arduo della rinuncia a qualunque immagine di sé possa offrire un compiacimento, un sollievo.
Gli Ultimi colloqui[40], i ricordi attraverso i quali le sorelle e le altre monache hanno trasmesso le sue parole degli ultimi mesi di malattia dipingono un estremo sforzo per liberarsi da tutte le proiezioni e tollerare di non essere compresa, al punto di domandarsi se Dio non solo potesse comprenderla, ma esistesse realmente o non fosse altro che l’ultimo fantasma prodotto dalla sua mente.
Se riusciamo a familiarizzarci con il linguaggio proprio del tempo, la lotta di questa donna con Dio fa tremare le gambe a Giacobbe.
Non sottovalutiamo le sue consorelle. È vero, non capiscono, ma percepiscono di trovarsi di fronte ad un’alterità che richiede rispetto, una nube divina che si muove nel deserto.
Il loro ricordo tenace, pur con tutta la fragilità umana, ha permesso che il messaggio di Teresa non morisse con lei.
La vita di Teresa è una Confessio Fidei.
Una lotta strenua alle immagini che la fantasia produce nella mente, perché all’anima basta sapere che Dio conosce il suo nome e questo è l’inizio della bonifica della mente.
Giovanni e Teresa non indicano un ideale, un modello di perfezione, una risposta al nostro bisogno di sicurezza, alla necessità di controllare in qualche modo la realtà, a un ideale di santità.
Sono consapevoli che l’elemento intrinseco agli ideali è il loro collasso.
La storia ci insegna che spesso l’ideale si frappone all’opera di Dio dentro dell’uomo.
La chiamata del cristiano è paradossale: acquistare per perdere e ricevere il mondo per spogliarsene.
Dio è in noi e ci crea continuamente, noi possiamo conoscerLo e per questo è per tutti, ma per ciascuno dipende dalla dedizione, dalla pazienza e dal tempo che dedica a Lui.
E che mai si dovrebbe fare di meglio per se stessi se non conoscere Dio e amarLo?
4. Gli interni dell’anima hanno le dominanti del fuoco.
Quando bussiamo alla porta della Chiesa, che sia in età infantile o in età adulta, dalla Chiesa riceviamo la Fede, attraverso la Chiesa riceviamo la vita in Dio e in questo senso la Chiesa è nostra madre.
Come nei primi mesi di vita lo stato d’animo della madre è importante nella misura in cui influenza la risposta che dà ai bisogni del bambino e permette così – se tutto va bene – che da questo impulso emerga nel figlio un sistema altamente sofisticato per affrontare la vita.
Sistema che permette all’essere umano di simboleggiare quello che è stato e rimane per sempre il legame unico con la propria madre e di cui troviamo traccia nei rapporti con insegnanti, amici, figli, nazione e… Chiesa.
Noi guardiamo il mondo e gli altri in relazione a noi stessi, attraverso la nostra mentalità e il nostro atteggiamento e ogni nostro gesto diventa uno specchio che riflette modi di vedere.
Così essere battezzati, accogliere la Fede dalle mani della Chiesa, dovrebbe comportare un’opera di riparazione paziente che permetta lo spiegamento della nuova vita ricevuta da Cristo. Ricostruire una nuova personalità in cui assorbire, in uno spazio divenuto separato e sacralizzato, ciò che aiuta a far evaporare quel sentimento strano di spaesato stupore con cui il discepolo di Cristo si specchia nello sguardo di chi non ha Fede, perché vivere la Fede è coabitare con Dio.
Una madre con un alterato rapporto tra sé e il mondo, altera le percezioni del bambino perché il suo malessere si riverbera nelle sue funzioni di cura materna. Nel bambino nasce uno spavento che diventa bisogno di calmarla perché dipende da lei.
Una chiesa alterata nella sua Fede, e di conseguenza nei processi della sua trasmissione, provoca un terribile disincanto che genera sofferenze inaspettate. Un’azione che colpisce a tradimento, una vera e propria violenza, un abuso ai danni del battezzato che modifica le percezioni di sé nell’anima perché gli interni dell’anima hanno le dominanti del fuoco.
Come un bambino che ha sperimentato una madre non del tutto capace, sarà condizionato da un’esigenza irriducibile del cuore (e spesso irrappresentabile) di ripararne il disagio,
Così il cristiano, accolto da una chiesa sbilenca nella Fede, proverà disagio verso una schietta Confessio Fidei. Correrà il rischio di ricercare un ruolo socio-ecclesiastico scambiandolo per uno spogliamento di parti di sé anti-Cristo. Sarà indotto a confondere l’aspetto filantropico di amare fino alla morte con l’amore divino che consiste, invece, nel praticare la morte di sé per essere trasformato, tramite la Fede nel Padre, in un altro figlio di Dio.
Sarà tentato dall’orrore del proprio niente e riuscirà a devolvere il proprio nome solo per immagini di chiesa dove primario è l’ordine o il disordine.
L’ordine/disordine, però, non hanno un fine escatologico, mentre prioritario è l’incontro dell’uomo con Dio perché la chiesa non è un posto dove andare per accumulare beni spirituali, ma un luogo dove poter essere.
La bramosia dei beni (anche spirituali) che accumuliamo per il domani, misura la stabilità o la contraddizione e fragilità del nostro desiderio del regno celeste (cfr. Math 6, 24-34).
Siamo abituati (educati?) a delegare ciecamente la responsabilità della nostra Fede e forse ciò si alimenta, oltre che per comodo, anche per quel retaggio (paura) che gli esseri umani hanno della libertà di scegliere fra il bene e il male, preferendo aderire a una rete generale di obbedienza che rassicura, ma che impedisce di essere vigili quando il sistema s’incrina e scivola verso l'abisso, come si osserva oggi nella chiesa.
Quando ci viene chiesto di obbedire occorrerebbe domandarsi a quali conseguenze condurrà un’obbedienza acritica a una forma di autorità chiaramente dispotica come quella attuale che si riscontra nella chiesa. Questo per preservare la libertà di giudizio, conservare umani i sentimenti e adamantina la Fede.
Per quanto paradossale possa apparire, il rapporto con la Chiesa non dovrebbe essere in primo luogo di natura giuridica o di sudditanza/dipendenza, ma di parità.
Il dono della Fede è distribuito con una consegna semplice, intensa e reciproca: “Tienilo”, offre la Chiesa. “Custodiscilo tu”, risponde il battezzato.
In altri termini: pura polvere spirituale, non delega passiva ai chierici della gestione e della responsabilità del dono della Fede che è responsabilità di ogni battezzato.
L’obbedienza è un vincolo d’amore, altrimenti è solo (comoda) pavidità con conseguente disponibilità a essere vulnerabili.
Occorre coltivare un rispetto altissimo della propria dignità di battezzati e scoprire che ciascuno è unico di fronte a Dio e vive della certezza di essere trasformato in Dio.
È necessario, quindi, costringere la mente a una trattativa con i dati rivelati su un piano diverso da quello usuale che deve essere verificato perché Ahimè! Ci sono alcune ferite che non possono essere completamente curate.
La nostra unica preoccupazione avrebbe essere quella di preservare il desiderio che invoca l’assenza e la presenza divina, ma si è concesso acriticamente largo spazio e ideologie che stanno flagellando la chiesa e la ragione, di conseguenza, è stata spinta fino a scontrarsi con il limite della domanda di senso della Fede.
Per poter rimanere stabili, ci deve guidare la certezza che la Chiesa è il Corpo di Cristo e che noi, nella Chiesa, viviamo con Cristo, cioè con Dio che facendosi uomo è entrato nella polvere dell’uomo, come sua sposa.
L’aggiornamento si è rivelato un’esca per anime fragili, le antiche verità possono assumere un significato del tutto nuovo e diverso solo sulle labbra di coloro che, pur nel buio, conservano la Fede nella certezza della signoria di Dio.
È un desiderio senza alternativa, perché in alternativa non esiste che il niente.
L’aggiornamento si manifestò all'insegna del rumore. Le chiese divennero assemblee di tumulti, di grida e le parrocchie furono trasformate in luoghi di corse affannose per avere un carattere di ampia sonorità.
La nuova identità della fede che si è fatta avanti negli ultimi anni, frutto di quella sonorità, si gioca ora su un invito orecchiabile ad accogliere uomini cose, animali: todos, todos, todos[41].
Questa teoria dovrebbe riempiere le chiese…[42]
Invece ha l’effetto di un proselitismo rovesciato, una bulimia che si nutre di un potere mai pago il cui contrappasso è lo svuotamento delle chiese.
Il progressismo radicale, per una coerenza interna, è una sfida all’O.K. Corral, senza contenimento che converge nell’insignificanza. Ci si volge altrove[43].
Todos, todos, todos è una proiezione disperante che non riesce a piegarsi alla logica della Redenzione che è offerta a tutti, ma possibile solo con una decisione volontaria perché ha come limite invalicabile la libera scelta dell’uomo. Per chiunque sia disponibile a seguire l’Agnello ovunque vada (Apoc 14, 4 b-c).
La riparazione consiste in una Confessio Fidei che prenda le distanze dalla scelta di Adamo, dove più che la superbia – moralizzata perché colpevolizzante – conta la disponibilità alla fiducia, all’abbandono a Dio che venne meno in Adamo (Gen 2, 17).
Il todos è una terapia indicata per chi non deve più ardere di zelo per la casa del Signore (III Reg 19, 10).
Non si riforma la Chiesa con il rumore o civettando con le dottrine mondane, ma riscoprendo nella propria caducità, la consapevolezza della possibilità di relazione con Dio che raramente ama il tumulto e sfugge sempre al bisogno dell’immediatezza per attendere i tempi, le illuminazioni, le risposte attese.
Le poche parole del cristiano dovrebbero essere solo concretezza, non dei fatti materiali (di cui invece si occupa troppo: forse per allontanare un vuoto?), ma di quelli spirituali.
Il corpo che diventa spirito e lo spirito che si rappresenta in un corpo.
Sarebbe una reazione credibile di fronte al silenzio su Dio scaturito dagli anni postconciliari.
L'aggiornamento appare come una proiezione ideologica, l’illusione sbalestrata di aggirare il silenzio di Dio che sostituisce la fiducia nella Sua presenza nella Chiesa perché si ha paura della spogliazione (della chiesa) richiesta dal dinamismo dell’Incarnazione.
Siamo attoniti da ciò che vediamo succedere nella chiesa e che sembra intaccare la Fede, ma non dobbiamo scoraggiarci, anzi!
Proprio tale situazione si offre come una grande opportunità di affrancamento interiore dalla sudditanza verso idoli ecclesiastici ormai così desueti da essersi accartocciati su se stessi in meccanismi ripetitivi e autoritari.
L'impegno dell'uomo è far posto al Signore nella propria realtà interiore, in modo da poter sentire di nuovo la Sua presenza in ogni cosa (cioè riscoprire la sacramentalità del mondo), gioendo di questa presenza e non delle proprie opere (fossero anche liturgiche).
La Tradizione della Fede non consiste nel far rivivere il passato con gli occhi del presente, ma vivere il presente nell'abbandono senza riserve a Dio, come l’esempio del passato ci ha trasmesso.
La Tradizione non reinventa il passato, non lo riproduce, ma neppure lo distrugge, lo lascia andare come ogni cosa umana che è destinata ad appassire perché è il presente che chiede obbedienza.
Ricordare il passato deve riflettere la necessità di unirci a Dio rimuovendo lo scoglio di questi ultimi decenni, quando la difficoltà a percepire come credibile la relazione con Dio, l’unione con Dio, si è dissolta sulla centralità della chiesa più che sull'incontro con il Signore.
Conversatio nostra in coelo est (Phil 3, 20) è una gioia intima, non necessariamente sensibile, giocata con le incertezze storiche perché la vita cristiana è una dinamica di reale e possibile che rende i cristiani, in virtù della loro Confessio Fidei, persone capaci di interpretare il prossimo futuro dal profondo del loro passato.
La cui sostanza non può che essere l’Amore!
5. La fontana sgorga benché sia notte.
Il caos nel quale la chiesa si trova oggi è la realtà con cui dobbiamo misurarci.
La lezione appresa negli ultimi dieci anni è che se si glorifica una nostra proiezione di chiesa (magari anche confusamente buona), cioè qualcos'altro al posto di Dio, si ricerca se stessi e non si riesce più a essere disponibili a farsi trovare da Lui.
La ricerca di Dio non è un insieme di buone opere che rendono equilibrati, inalterabili e colmi di dolcezza, piuttosto è simile a quelle tempeste che spazzano il cielo dopo giorni di forte calura.
La ricerca di Dio non afferma l’”io”, ma Dio. Lo aveva ben individuato san Benedetto che nella sua Regola, pur elencando le buone opere, è consapevole che solo Dio solleva fino al cielo (VII, 8b).
Il metodo che stiamo seguendo nella chiesa non è più lo sguardo verso Dio, ma la manipolazione della realtà con la scusa dello Spirito Santo per dissimulare l’introduzione delle ideologie personali di chi gestisce il potere[44].
È un’operazione introdotta con il concilio dove, una modesta minoranza colta e ferratissima sulle dinamiche della secolarità, che la maggioranza dei vescovi – indifferente o troppo sicura di sé – neppure immaginava potessero esser adoperate in quel contesto, s’impadronì dell’assemblea conciliare, determinandone gli esisti[45].
Oggi è praticata su larga scala, si pensi all’invenzione delle conferenze episcopali o del sinodo che, fin dai suoi albori[46], ha fatto finta di essere una forma di democrazia (caricaturale) cattolica.
L’abbiamo constato nell’ultimo spettacolo andato in onda: il sinodo sulla sinodalità, una penosa esposizione onanistica mai sperimentata.
C’è da domandarsi se la paura (inconsapevole) della scomparsa fisica della chiesa abbia preso il sopravvento sull’essenza della Fede e si manifesti attraverso una fantasia religiosa di onniscienza e di una certa follia di onnipotenza.
Ormai appare palese - come prima non era successo – che siamo paralizzati dalla curiosa convinzione che uno solo per tutti sa cosa è meglio e sa esattamente cosa deve essere fatto e come.
Siamo certi della correttezza di questa posizione?
L’aggiornamento ha veicolato la proiezione illusoria (e illuministica) di poter superare la frustrazione della modernità usandone gli strumenti (pagani): la profanazione di Dio.
Si crede in questo modo di proteggere il “corpo” della chiesa (il popolo di Dio…), ma è solo il mascheramento della liquidazione della chiesa.
L’anima di ciascun cristiano richiede una diversa forma di protezione e cura perché si trova altrove, si trova nel cuore di Dio.
Tutta la rivoluzione messa in atto dall’aggiornamento non sembra aver prodotto che una vera e propria radicalizzazione della medesima concezione di potere centrale assoluto che si era affermata nell’XI sec., singolarmente replicato in molte istituzioni religiose nate sull’onda del concilio e che erano viste come la primizia del carisma conciliare e che si sono disgregate in corruzione economica, abusi sessuali, violenze psicologiche…
La chiesa di mille anni fa usò il monachesimo contro l’esperienza monastica, assolutizzandone le caratteristiche giuridiche: il papato ricostituito con la centralità assoluta riservata all’abate (e con i rischi che il potere monocratico comporta[47]).
Il centralismo atrofizzò lo spirito di equilibrio tra potere secolare e ecclesiastico con il quale la chiesa, almeno nel desiderio, era vissuta nel primo millennio.
La Chiesa dal XIX sec. si trovò a confrontarsi duramente con ideologie che ne minavano le radici alle quali rispose con scelte eccessivamente difensive e altrettanto ideologiche che produssero nei fedeli la preminenza dell’obbedienza a scapito del pensare in modo autonomo e critico e una fede di tipo devozionale.
Il concilio, dopo le tragedie del XX sec., avrebbe potuto essere l’occasione per rispondere alla percezione dell’assedio in cui si sentiva costretta la chiesa, tentando di rafforzare dall’interno l’anima dei cristiani, alimentando nei fedeli la necessità della conoscenza dei fondamenti della propria identità di Fede e un’autentica spiritualità nella vita delle persone.
Si preferì un’altra strada: acclimatarsi e acculturarsi al mondo circostante sfruttando la situazione ecclesiale dominata da un’obbedienza passiva e sostanzialmente delegante e questa, sì, tridentina!
Era un po’ come usare la Fede, contro la Fede. Si rese la chiesa spazio per proprie elaborazioni ideologiche ossessive e unilaterali, dominandola e surclassando de facto il ruolo centrale di Cristo.
Si presentava un nuovo modello di chiesa tutto ministeriale e comunionale[48], che si è rivelato invece un sistema burocratico costoso, espressione di un potere dai tratti totalitari, totalmente proiettato in questo mondo, di cui ha assunto tutte le categorie concettuali e organizzative, ponendosi come il termine della fede proposta ai battezzati.
Dal punto di vista storico, possiamo constatare che fu una risposta davvero tragica. Assistiamo alla riformulazione della Fede con categorie culturali che la negano e appare assai verosimile che il risultato ottenuto sarà non solo l’abbandono delle chiese che già sperimentiamo, ma la nascita di vere e proprie azioni persecutorie contro i cristiani come già s’intravedono in paesi che furono di matrice cattolica.
Quella che sta prevalendo è la chiesa prodotta nella mente, vuoi dal più sconosciuto dei cristiani, vuoi – disgraziatamente – dal successore di Pietro; è quella che costruita dall’uomo, non la Chiesa dove si abita con Dio e dove diventa spontaneo un atteggiamento di deferenza e la scelta dell’ultimo posto come il pubblicano che, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto (Luc 8, 1a).
Il cristiano che fronteggia gli attacchi alla Fede provenienti dal vertice della chiesa è costretto al silenzio e ad impegnarsi in un tentativo, continuo e sproporzionato, di restaurare il senso della propria identità cristiana a fronte di un’esperienza catastrofica nell’anima.
Ciò che molti cristiani soffrono è un’esperienza che rovina tutto, affermando di lasciare tutto intatto, un’esperienza in cui la Chiesa sembra sparire senza morire (o morire senza sparire).
La lotta per proteggere la sopravvivenza della Fede erode il ritmo della Tradizione sulla quale è fondato il senso della stessa esistenza cristiana e minaccia quella presenza di confortante continuità che fornisce la consapevolezza di essere sorretta da Dio nel suo sforzo di affrontare il mondo.
Nel battesimo la Chiesa ci consegna l’unica veste, la Fede, con la quale ricoprire la nostra nudità; per quanto paradossale possa apparire, oggi ci viene consegnata in forte deterioramento..
Questo costituisce la precarietà ontologica del cristiano contemporaneo!
La Chiesa, è come una fontana che sgorga anche di notte, perché da lei viene ogni origine, nonostante sia notte[49]. È verità fondamentale – e un immenso conforto – l’antico detto: extra ecclesiam nulla salus.
Non confondiamola, però, con un insieme di basiliche, chiese, monasteri, ospedali, collegi, e quant’altro la fantasia dell’uomo sia in grado di creare: sono solo accessori.
Neppure le scelte ecclesiali: quelle degli ultimi cento cinquant’anni, per esempio, hanno fomentato una crisi di grave entità. L’apostasia è penetrata nel perimetro della chiesa attraverso coloro che l’avrebbero dovuta custodire, difendere e proteggere.
Avremo sempre una chiesa nella nostra mente! Abbiamo nostra madre nei fondamenti costitutivi della nostra psiche, abbiamo la Chiesa in quelli della nostra anima.
Ciò che dovremmo fare è esercitare silenzio, tatto, lentezza, discrezione, attenzione a Dio notte e giorno.
Scegliere parole che nascano nel profondo silenzio di una vita di prossimità a Dio (Luc 2, 19).
Un silenzio rotto rare volte e di solito in occasioni puntuali. Con nessuna o poche parole e pochissimi gesti (Jo 2, 1-11).
Interessati in primo luogo a scoprire e vivere ciò che la chiesa è.
La Chiesa è il luogo sponsale in cui Cristo si unisce al battezzato e i due formeranno una carne sola (Eph 5, 31c).
Dio si rivolge a uomini di buona volontà che accettino di perdere se stessi e rendere il proprio corpo identico a quello dell’Amato, perché il Padre cerca l'immagine di Suo Figlio, morto per noi, impressa dentro di noi.
Saremo mai disponibili, io – tu, a un Amore così grande?
rogo boni lectores ut oretis pro clusino scriptore
[1] Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di Leone Piccioni, Milano, Mondadori 2000 pp. 524-525. È una lettera in forma di poesia a Ettore Serra del 1916. Il poeta nelle note spiega che trovare una parola significa penetrare nel buio abissale di sé senza turbarne né riuscire a conoscerne il segreto. Immagine adeguata e calzante di cosa sia la Confessio Fidei.
[2] John Henry Newman, Perdita e guadagno : storia di una conversione, prefazione, traduzione e note di Bruno Gallo, Milano, Jaca book, 1996. Newman spiega il senso dell’infallibilità (e più in generale dell’autorità) del papa: Nessuno è maestro di se stesso; neppure il Papa può fare quello che vuole; pranza per conto suo e parla a partire da un precedente". "Certo", disse Charlotte, "egli agisce perché è infallibile". "Anzi, se fa degli errori durante le celebrazioni (liturgiche)", continuò White, "è tenuto a metterli per iscritto e a confessarli, per timore che diventino dei precedenti". "Durante le celebrazioni è tenuto a fare quello che gli ordina il cerimoniere, anche diversamente dal proprio punto di vista" disse Willis.”
[3] Le altisonanti elaborazioni a sostegno delle periferie non riescono a nascondere la quotidianità intessuta dalla realizzazione delle istanze del Nord del mondo, in un gioco faticoso di copertura, segnato da continui richiami (sub specie damnationis) a inclusività, periferie, migranti, ecologismo, desacralizzazione, pauperismo ecc. La misericordia che irrompe ovunque, ossessionante, perché percepita come preclusa, in un quadro complesso di continue sperimentazioni tese a destabilizzare il tessuto ecclesiale.
[4] John Ronald Reuel Tolkien, Il signore degli anelli : trilogia, edizione italiana a cura di Quirino Principe, introduzione di Elémire Zolla, Milano, Bompiani, 2000 pag 1209.
[5] Per precisione: “Concetto spaziale. La fine di Dio”.
[6] Intervista a Carlo Cisventi del 1963, cit. in Fondazione Lucio Fontana, "La Fine Di Dio (1963-1964)".
[7] Intervista di Carla Lonzi a Lucio Fontana in: Autoritratto: Accardi, Alviani, Castellani, Consagra, Fabro, Fontana, Kounellis, Nigro, Paolini, Pascali, Rotella, Scarpitta, Turcato, Twombly, prefazione di Laura Iamurri, Milano, Absondita 2017.
[8] Si leggano queste parole di Paolo VI nell’Udienza del 26.11.1969 a proposito dell’introduzione delle lingue parlare. È un testo tutto da meditare. Possibile che ci fosse così poca lungimiranza? Qui, è chiaro, sarà avvertita la maggiore novità: quella della lingua. Non più il latino sarà il linguaggio principale della Messa, ma la lingua parlata. Per chi sa la bellezza, la potenza, la sacralità espressiva del latino, certamente la sostituzione della lingua volgare è un grande sacrificio: perdiamo la loquela dei secoli cristiani, diventiamo quasi intrusi e profani nel recinto letterario dell’espressione sacra, e così perderemo grande parte di quello stupendo e incomparabile fatto artistico e spirituale, ch’è il canto gregoriano. Abbiamo, sì, ragione di rammaricarci, e quasi di smarrirci: che cosa sostituiremo a questa lingua angelica? È un sacrificio d’inestimabile prezzo. E per quale ragione ? Che cosa vale di più di questi altissimi valori della nostra Chiesa? La risposta pare banale e prosaica; ma è valida; perché umana, perché apostolica. Vale di più l’intelligenza della preghiera, che non le vesti seriche e vetuste di cui essa s’è regalmente vestita; vale di più la partecipazione del popolo, di questo popolo moderno saturo di parola chiara, intelligibile, traducibile nella sua conversazione profana.
[9] Giorgio Manganelli, L’ironia teologica di Fontana [1978], in Id., Emigrazioni oniriche. Scritti sulle arti, a cura di Andrea Cortellessa, Milano, Adelphi, 2023, p. 166.
[10] Parafrasi di: “artisti spaziali, siamo evasi dalle nostre città, abbiamo spezzato il nostro involucro, la nostra corteccia fisica e ci siamo guardati dall’alto, fotografando la Terra dai razzi in volo” Dal manifesto Spaziali del ’48, pp. 22-3. Sta in: Lucio Fontana, Manifesti scritti interviste, a cura di Angela Sanna, Milano, Abscondita, 2015.
[11] Se si volesse approfondire quale fossero le radici profonde della mens dei padri conciliari (soprattutto dei periti, che tanto influenzarono il concilio) si leggano le lettere dal fronte di un uomo che ha colto e influenzato il passaggio dalla Tradizione alla modernità nella chiesa. Cfr. Pierre Teilhard de Chardin, Genesi di un pensiero, lettere dal fronte 1914-1919, Milano, Feltrinelli, 1966.
[12] Tolkien, Ibidem
[13] La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio. Paolo VI, Ecclesiam Suam, 06.08.1964, n° 67.
[14] Cfr. Math 12, 34; 23, 33.
[15]Cr. Michele Cometa, Mistici senza dio, Palermo, Edizioni di passaggio, 2012.
[16] Rigidità. Questo ci allontana dalla saggezza di Gesù, dalla saggezza bellezza di Gesù; ti toglie la libertà. E tanti pastori fanno crescere questa rigidità nelle anime dei fedeli; e questa rigidità non ci fa entrare dalla porta di Gesù (cfr Gv 10,7): è più importante osservare la legge come è scritta o come io la interpreto, piuttosto che la libertà di andare avanti seguendo Gesù. Una tra le innumerevoli. Meditazione alla Messa 05.05.2020.
[17] Il ricordo corre alle immagini da ambientalismo estremo (e da profanazione) proiettate sulla facciata della basilica di san Pietro l’8 dicembre 2015.
[18] Si pensi alle riflessioni intorno agli effetti del’Intelligenza artificiale.
[19] Rectius: per essere in Lui, non provavo nulla in me. Vedevo me essere in Dio, non vedendo, però, me, ma solo Dio. (25 giungo 1585, trentesimo giorno). Cfr. Maria Maddalena de’ Pazzi, I quaranta giorni, con una nota di Angelo Morino, a cura di Maurizia Rolfo, Palermo, Sellerio, 1996 pag. 154.
[20] Espressioni proprie a Maria Maddalena de’ Pazzi (1566-1607). Una presentazione sintetica ed efficace in: Maria Maddalena de' Pazzi, L'amore non amato , un'antologia delle sue opere a cura di Mons. Giuliano Agresti, Roma, Città nuova, 1974.
[21] Atanasio, Vita di Antonio, cap.2, 1 in: Vite dei santi : dal III al VI. Secolo, a cura di Christine Mohrmann, Milano, Mondadori, 1985 pag. 27.
[22] Atanasio è il campione della Chiesa contro l’arianesimo. E’ da ben comprendere questa qualità: l’eresia è una proiezione collettiva d’immagini accattivanti. Valeva allora, è valido ancora oggi.
[23] Atanasio, Idem, cap. 11.1. pag. 29.
[24] Scriveva verso il 1150 il grande abate di Cluny, Pietro il Venerabile (1092-1156) nel trattato De Miraculis: abitano sempre – secondo il costume degli antichi monaci egiziani – in celle singole nelle quali si dedicano senza sosta al silenzio, alla lettura, alla preghiera e al lavoro manuale, soprattutto mediante la copiatura di libri. Sta in: I Padri certosini, Fratelli nel deserto, Fonti certosine 2, Testi normativi, testimonianze documentarie e letterarie; introduzione, traduzione e note a cura di Cecilia Falchini, Magnano, Qiqajon, 2000 pag. 234.
[25] Vita di Martino / [Sulpicio Severo] . Vita di Ilarione ; In memoria di Paola / [Girolamo], introduzione di Christine Mohrmann, testo critico e commento a cura di A.R. Bastiaensen e Jan W. Smit, traduzioni di Luca Canali e Claudio Moreschini, [Roma], Fondazione Lorenzo Valla ; [Milano], Mondadori, 1975 pag, 13-15.
[26] All’inizio del capitolo XVII, trad it. Gregorio di Tours, I miracoli di san Martino, a cura di Silvia Cantelli Berarducci
Torino, Einaudi, 2020 pag. 33.
[27] Vendete i vostri beni, e dateli in elemosina; fatevi delle borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nel cielo, dove ladro non si avvicina e tignola non rode. 34 Perché dov'è il vostro tesoro, lì sarà anche il vostro cuore (Luc 12, 33-34).
[28] La carriera militare di Martino imbarazza non poco Sulpicio perché riflette una polemica non sopita sul ruolo del servizio militare e, di conseguenza, mina la coerenza con il modello eroico del monaco allora dominante. Antonio e Ilarione, ad esempio, erano andati giovanissimi nel deserto, pur a una certa distanza dal villaggio di origine, come si vede nella Vita Antonii. Sulpicio vuole essere fedele all’ideale corrente che al monaco impone di rompere ogni contatto con la società, la sua organizzazione e i suoi valori. Ecco la comparsi di dettagli letterari che annunciano gli sviluppi futuri.
[29] Sarà la stagione, breve, della gloria degli Ordini mendicanti, ben presto resi ‘conventuali’, cioè somiglianti alle strutture monastiche correnti, ma a servizio più diretto della Sede apostolica.
[30] Una lettura sobria e pacata in: Crisogono di Gesù, Vita di san Giovanni della Croce : dottore della Chiesa, traduzione dallo spagnolo del p. Ferdinando di s. Maria, Roma, Postulazione generale dei Carmelitani Scalzi, 1984 pagg. 152-183.
[31] Tralasciando l'iniziale ingiustizia della sua reclusione, occorre ricordare che gli furono applicate le consuete norme, i rigori stabiliti nelle Costituzioni dei Carmelitani del 1462 per il delitto di ribellione e contumacia di cui fu accusato. Ciò che accadde in quell'inospitale loculo del convento di Toledo resta per molti versi un segreto.
[32] Per giungere a gustare tutto, / non cercare gusto in nulla. / Per giungere a sapere tutto, /non voler sapere nulla di nulla. / Per giungere a possedere tutto, /non cercar di possedere nulla di nulla. /Per giungere ad esserlo tutto, /non cercar di essere qualcosa in nulla. Cfr. Giovanni Della Croce, Tutte le opere, prefazione, saggio introduttivo, traduzione e note di Pier Luigi Boracco, Milano, Bompiani Il pensiero occidentale, 2010 pag. 1079-1081.
[33] Si legga l’interessante intervento, da fonte non sospetta, su Potere del papa e giustizia vaticana (Alberto Melloni Rivista Il Mulino 04.12.23). Il papa è “chiamato a esercitare in forza del munus petrino poteri sovrani anche sullo Stato della Città del Vaticano”. Quella che potrebbe sembrare una spiritualizzazione […] ha invece un risvolto opaco. Nessuno aveva saputo dire a maggio su cosa basare quella “vocazione” temporale del papa aggiuntiva rispetto a quella di pastore della Chiesa universale. Infatti nemmeno i più tenaci difensori del potere temporale hanno mai sostenuto che esso sia stato conferito a Pietro omogeneo al primato e alla infallibilità perimetrati dal concilio Vaticano I […] non si potrà non rilevare la serie di aporie procedurali e sostanziali, con un danno per la reputazione della Suprema Autorità ecc.
[34] Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, Opere complete: scritti e ultime parole, Città del Vaticano, Libreria editrice vaticana, Roma, OCD, 1997 pag, 208.
[35] Ib, pag. 239.
[36] Bernardo di Chiaravalle, I gradi dell'umiltà e della superbia ; L'amore di Dio, introduzione, traduzione e note di Gaspare Mura, Roma : Città nuova, 1995 pag.157.
[37] Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, Opere complete, Id., pag, 188.
[38] Giovanni della Croce, Tutte, Ibidem, pag. 246-247. Il testo originale recita: sin arrimo y cum arrimo.
[39] Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, Opere complete, Ib., pag, 686.
[40] Id, pp. 955 -1171.
[41] Riferisce Vatican News il 28.08.2023: “Todos, todos, todos”. L’appello lanciato e rilanciato lungo tutta la Gmg di Lisbona ad una Chiesa accogliente dove ci sia posto per “tutti, tutti, tutti”, incluse anche le persone omosessuali e transessuali, Papa Francesco l’ha ribadito e approfondito nella conversazione con i gesuiti del Portogallo. Il Papa ha incontrato i suoi confratelli lo scorso 5 agosto nel Colégio de São João de Brito, scuola gestita dalla Compagnia di Gesù, durante il viaggio nella capitale lusitana, in occasione, appunto, della Giornata Mondiale della Gioventù. Todos, tranne chi osa avere un pensiero non allineato e timidamente perplesso. Viene perseguito, irriso e delegittimato: cardinali, vescovi, preti (i laici sono tutelati dalla legge civile, il che è tutto dire!) e la galassia di colore che sono qualificati con un lemma di squisita fragranza evangelica: indietristi.
[42] Il procedere di Dio ha un’altra consistenza, come si osserva nei primi capitoli di Genesi. Dio separa la luce dalle tenebre, le acque superiori da quelle inferiori, il mare dalla terraferma. Separare è santificare: consentito e proibito. Quando ci separiamo, creiamo ordine. Sconfiggiamo il caos. Diamo a tutto e a tutti il loro spazio. Sono io e non te. Tu sei tu e non io. Una volta che rispettiamo la nostra differenza e distanza, allora possiamo unirci senza danneggiarci a vicenda. Prima separare, dare spazio alla verità, poi connettere.
[43] La confusione creata in questi ultimi anni parte da quanto dichiarato nel 2013 come impegno programmatico nell’enciclica Evangelii gaudium il cui retroterra culturale ricorda ideologie storicistiche, hegeliane, care all’autore del documento che mai deflette dalla polemica contro a rigidità e l'astrattezza della "dottrina", opponendole una "realtà" (non quella di Dio,ma quella fenomenica) a cui ci si dovrebbe adeguare. Un minimo di conoscenza del catechismo aiuterebbe a comprendere che la realtà, se non è illuminata, guidata, ordinata dalla luce di Dio, "rischia di risolversi in caos".
[44] Non siamo qui per portare avanti una riunione parlamentare o un piano di riforme. Il Sinodo, cari fratelli e sorelle, non è un parlamento. Il protagonista è lo Spirito Santo. Omelia Piazza San Pietro, 04.10.2023.
[45]Roberto De Mattei, Il Concilio Vaticano 2. : una storia mai scritta, Torino, Lindau 2010 pagg, 203-206; 218-227; alla nota 131 si cita un testo di notevol interesse ai fini di comprendere i dinamismi reali (non quelli indotti con l’ideologia dello Spirto Santo) presenti nei consessi umani: Paolo Pomebni, La dialettica evento. Decisioninella ricostruzione delle garndi assemble. I parlamenti e le assemblee costituenti, in L'evento e le decisioni : studi sulle dinamiche del Concilio vaticano 2. / a cura di Maria Teresa Fattori e Alberto Melloni saggi di G. Alberigo ... \et al., Bologna, Il Mulino, 1997.
[46] Si veda come fu manipolato il risultato del sinodo dove i vescovi presenti, molti dei quali ancora legati ad un chiaro depositum Fidei esprimevano dissenso e riserve sulla riforma liturgica: Il 18 maggio 1967 fu pubblicato un volumetto contenente le variazioni apportate fino ad allora al rito della messa (Variationes in Ordinem Missae inducendae ad normam Instructionis S.R.C. diei 4 maii 1967, Typis Polyglottis Vaticanis, 1967): le orazioni dell’offertorio erano ancora quelle del Messale di san Pio V. Il nuovo schema riformato elaborato dal Consilium, contenente anche i nuovi formulari per l’offertorio, fu invece sottoposto, come previsto, al sinodo dei vescovi del 1967, che il 26 ottobre si pronunciò, oltre che su altri quesiti, in particolare su quello relativo al gradimento della nuova messa, anche su questo. Furono favorevoli 71 vescovi, contrari 43, mentre 62 chiedevano variazioni. (cfr. Lorenzo Bianchi, LITURGIA - Memoria o istruzioni per l'uso?, pubblicato in 30Giorni, XIV, 7/8, luglio/agosto 1996, pp. 80-97. In Nicola Giampietro, Il card. Ferdinando Antonelli e gli sviluppi della riforma liturgica dal 1948 al 1970, Roma, Pontificio Ateneo S. Anselmo 1998 si legge: i conservatori riprendono fiato. Il Sinodo dei vescovi non è stato un successo per il Consilium; 4. negli studi di più vasta scala continua il lavoro di desacralizzazione, e che ora chiamano di secolarizzazione.
[47] È interessante osservare che dal XI sec. le riforme monastiche modificare il ruolo dell’abate, ‘limandone’ il potere o addirittura sopprimendone la figura. Così tutti gli ordini religiosi seguenti. Salvo la Compagnia di Gesù …
[48] Per comprendere cosa agitava gli animi, emblematiche le riflessioni di Enrico Bartoletti, arcivescovo di Lucca, segretario della CEI in una conferenza del 1971: Si va verso un immanentismo antropologico che veramente cambia in modo totale la visione culturale del mondo di oggi. Ora la Chiesa è entrata in contatto con questo mondo che è totalmente cambiato nelle sue categorie mentali e culturali. I pochi anni che ci separano dal Concilio costituiscono già un ambiente culturale nuovo, non previsto dal Concilio nelle sue esplicitazioni problematiche. Mi ha colpito la frase di un vescovo: In questi cinque anni postconciliari abbiamo cambiato di secolo. Interessante anche: Enrico Bartoletti, Il sacerdozio ministeriale : omelie e scritti, raccolti e presentati da Pierluigi D'Antraccoli, Roma : Città nuova, 1978.
[49] Parafrasi della poesia Ben conosco quella fonte In: Giovanni della Croce, Ib., pag 237. Composta da Giovanni della Croce nel periodo della reclusione del Santo a Toledo, negli ultimi mesi della sua prigionia. Ispirata forse dalla qualità ‘notturna’ ne la notte del carcere di Toledo, da sete di acqua e di e … dal rumore notturno del fiume Tajo che scorreva non lontano, ai piedi delle mura del convento del Carmine. Cfr. Castellano Cervera, Jesús, OCD. La Fonte, Fiamma Viva. N.º 32, 1991, pagg. 133-155.