Nella Regola di san Benedetto il termine oblazione ricorre solo due volte nel capitolo 59 e viene impiegato per l’offerta al monastero di fanciulli da parte di famiglie ricche o povere.
L'oblazione richiama la Messa di cui nella Regola non si parla mai.
Di Benedetto, a ben vedere, sappiamo solo che per almeno tre anni non ha partecipato ai Sacramenti e neppure celebrato la Pasqua. Nella Regola non ne troviamo presenza esplicita e non sembra credibile sostenere che il motivo fosse perché era ‘ovvia’, come a molti è piaciuto credere.
Il ministero dell’altare[1], così come lo definisce con molta circospezione la Regola, sembra avvolto in una sua disciplina dell’arcano[2].
Proprio in questa cornice così sacra, è collocata l’offerta dei fanciulli a Dio nel monastero; le parole precise della Regola sono: et cum oblatione ipsam petitionem et manum pueri involvant in palla altaris, et sic eum offerant[3].
L’oblazione associa l’offerta del fanciullo con le oblate che diverranno il Sacramento. E’ affascinante l’immagine della mano del fanciullo avvolta in palla altaris[4].
Sembrano minuzie, ma san Benedetto ha ben chiaro lo spessore di questo rito e subito si affretta a circondarlo con una siepe. Infatti, precisa che i genitori non dovranno in alcun modo dare o promettere beni al fanciullo perché non sia indotto con falsi miraggi e speranze ad andarsene e quindi, probabilmente, a perire (RB 59, 6).
Benedetto testimonia una tradizione presente nel monachesimo precedente e che affonda le radici nell’Antico Testamento. Il caso celebre (1 Reg 1, 11 [1 Sam]) è quello di Samuele che i genitori, a lungo senza figli, offrono a Dio affidandolo al Tempio fin da piccolissimo.
La radicalità con cui Benedetto inquadra l’oblazione non era un’idea condivisa pacificamente, come testimoniano le precedenti disposizioni di san Basilio[5] orientate sulla libertà di scelta e su una lettura più esitante delle dinamiche dell’esperienza umana (e dal X sec. saranno per lo più accolte anche nella chiesa latina).
Già a quei tempi[6] si constatava la realtà delle monacature forzate (o inadeguate) e che saranno magistralmente descritte da Manzoni nei Promessi Sposi.
Le usanze antiche si devono stimare con l’anima degli antichi e le disposizioni cristiane si devono stimare con anima cristiana.
Potremmo soffermarci qui per un piccolo test sulla nostra disposizione religiosa: quale tipo di sventura avrebbe potuto essere, o potrebbe essere, crescere immersi in un’atmosfera di ricerca di Dio?
Lui ci fa indulgenza. Per com’è diventata oggi la chiesa, siamo sollevati dal dover rispondere a questa domanda imbarazzante…
Attraverso una storia non priva d’interesse, l’oblazione – l’offerta di sé -, attrasse fin da subito molte persone, uomini e donne, ad associarsi in un qualche modo a un monastero.
E’ importante questo dettaglio.
Il Poverello d’Assisi secoli dopo, in un tempo rigoglioso di persone che desideravano far penitenza, volle indicar loro una strada dalla quale emerse la particolare regola definita da papa Niccolò IV nel 1289 con la bolla Supra montem che certificava la struttura del Terz’Ordine.
Ciò che qualificava il Terz’Ordine francescano (come quelli più tardivi degli altri ordini mendicanti) era la sua dimensione di regola affiancata a quella per il primo ordine (frati minori) e a quella del secondo ordine (clarisse). In altri termini, nell’ambito del medesimo alveo spirituale si disciplinavano uno stile di vita con scopi e norme adatte a persone che rimanevano nella propria casa[7].
Era una vera e propria forma di vita religiosa che, per secoli, ha comportato anche un abito specifico, analogo sotto molti aspetti a quello degli altri due ordini.
L’oblazione, invece, indipendentemente dallo stato di vita (perché esisterà anche un’oblazione regolare e stabile all’interno del monastero, sebbene con un percorso storico più tortuoso) pone monaci e oblati sul medesimo piano: appartengono tutti al monastero.
La chiesa latina si è sempre distinta per il bisogno di racchiudere normativamente tutti gli aspetti della vita del cristiano fino in dettagli esasperanti.
La Regola, come si sa, vuole invece istituire una scuola del servizio divino (RB Prol. 45) alla cui base è posto un elemento fondamentale che prima di essere indicato in un regolamento giuridico, deve essere presente nel cuore di chi si presenta al monastero.
Ecco il senso e la perentorietà di ciò che scrive san Benedetto: Si promiserit de stabilitate sua perseverantia, post duorum mensuum circulum legatur ei haec regula per ordinem[8].
Per l’enfasi che si è data alla ‘Regola’ in quanto tale, sorprende dunque che il primo requisito richiesto da Benedetto a chi desidera la vita monastica sia la stabilità delle intenzioni, piuttosto che la conoscenza della Regola. E’ basilare per Benedetto verificare la capacità di tenuta interiore del soggetto che bussa al monastero.
La lettura della Regola avviene in un secondo momento, è la stabilitas ciò che interessa maggiormente[9].
Come si può inquadrare la stabilità non limitandosi al dato materiale del legarsi a un luogo specifico? Le riforme monastiche dei secoli seguenti non la perderanno mai, anche se la intenderanno non tanto per un singolo monastero, quanto per un’intera congregazione.
Come Benedetto vive nel momento in cui la romanità sta crollando, anche noi oggi partecipiamo a una rovina analoga perché non solo la nostra civiltà, ma anche le chiese storiche stanno crollando a causa dell’empietà.
La stabilitas richiesta da san Benedetto è la virtù di un tempo burrascoso; la linea impercettibile attraverso la quale l’anima si confronta con tutti gli aspetti della vita umana senza invidia, senza rancore, con una certa distanza e ne comprende la grandezza proprio nel momento in cui ne assapora la fragilità e transitorietà nella luce di Dio.
La stabilità è una forma di essere nel presente che ci preserva. Mentre camminiamo, possiamo unicamente concentrarci sul passo che in quel momento siamo in grado di compiere, nulla in più.
Occorre coltivare la forza di rifuggire come tentatrice l’immagine di un possibile peggioramento. La manna nel deserto (Es 16, 14-18) non ha preservato gli ebrei dall’angoscia, ma ha dato loro la forza di attraversare il vento secco e polveroso.
Non facciamo nulla da soli, non ci riusciremmo; la stabilità ci aiuta a comprendere che siamo aiutati in ogni nostro singolo passo.
Il monastero, quindi, è un luogo di pace nella misura in cui coloro che lo abitano hanno (o lavorano per avere) una sufficiente stabilità per non cadere, come gli ebrei nel deserto, sotto l’inganno distorcente della memoria per cui ricordavano di aver sempre pesce, ma non la fatica di raccogliere la paglia per fare i mattoni...
La stabilità è capacità di non farsi erodere dalla delusione sperimentando che la sopravvivenza di ogni giorno è esclusivamente un dono di Dio al quale noi possiamo solo corrispondere. La nostra ‘manna’ è essere posti su una strada al riparo dagli ondeggiamenti di un mondo transeunte.
La stabilità di ciascun membro del monastero diventa come un testimone invisibile e necessario che aiuta ciascuno a fronteggiare la tempesta che incombe sull’uomo; è il baluardo con cui tutto ciò che è distruttivo, in noi stessi, negli altri, nel cosmo, può essere distrutto infrangendo su Cristo ciò che sconvolge il cuore (cfr. RB 4,50a).
Il monastero, quindi, non è solo un luogo fisico, ma soprattutto una metafora spirituale, una rinnovata Gerusalemme, la memoria del Tempio del Signore.
Il suo abitante, presente o lontano, cammina sulle orme del vecchio Simeone, uomo giusto e timorato [di Dio] (Lc 2, 25).
Benedetto quando prevede che l’oblato appoggi la propria mano, come appoggiasse se stesso, sullo stesso telo sul quale sono posti il pane e il vino che diverranno il sacramento del Corpo e del Sangue di Cristo, gli fa compiere un gesto che ne tocca intimamente l’anima.
Quello che è rilevante in quel gesto non è ciò che compie l’uomo, ma ciò che Dio compie in lui.
Tornano in mente le parole di Dante Trasumanar significar per verba / Non si poria (Paradiso, I, 70-71a).
Per noi latini è di estrema importanza l’aspetto normativo di un atto e le sue conseguenze; è importante il potere che ne deriva e che possiamo esercitare, per quanto illusorio possa essere in se stesso. Sotto questo profilo, dobbiamo essere assai grati che il peso giuridico dell’oblazione odierna sia inferiore a quello di una piuma… è una notevole chance di libertà.
Rimane comunque un fatto. Oggi l’oblato, di solito, vive anche molto lontano dal suo monastero ei per lungo tempo i contatti reciproci sono minimali. Nella sua situazione di vita l’essere oblati rimane una realtà invisibile a tutti; può non essere un’esperienza facile perché siamo sociali e con una certa sollecitazione, anche minima, a essere gli uni per gli altri.
Il minuto quadratino di stoffa a mo’ di scapolare che è imposto all’oblato (non sempre) quando inizia il percorso di aggregazione al monastero, prima ancora di essere un segno verso l’esterno, come accadeva nei secoli cristiani, è un’indicazione di orientamento interno.
Il pensiero corre a una tradizione nata dai Vangeli apocrifi e passata nella pittura. Al momento dell’annunciazione, si racconta che Maria stesse filando la porpora per tessere una tenda per il Tempio del Signore.
In alcune rappresentazioni medievali si vede, infatti, Maria con un fuso e in braccio il Bambino. Lo spettatore distratto non percepisce l’apparente assenza dell’elemento essenziale del dipinto: il filo che dal Bambino si congiunge al fuso.
Non accorgersi della presenza del filo comporta un barcollamento della percezione, può indurre una qualche tentazione ad intaccare la sicurezza del nostro processo conoscitivo, ma non ci si deve allarmare.
C’è una grande lezione in questo procedimento: è un’educazione al mistero attraverso la tecnica del nascondimento. Il Mistero comporta la capacità di imparare a sostare, come sulla riga visibile di una lacrima.
Il minuscolo scapolare che l’oblato riceve, potrebbe riecheggiare da vicino la fune con la quale il monaco Romano faceva scendere il cibo al giovane Benedetto. La solitudine scelta da Benedetto lo esponeva all’orrore e alla dispersione e, diremmo oggi, a un possibile crollo della mente.
Ciononostante lascia Roma in cerca del suo Signore; a un qualche livello avrà forse intuito il rischio di ripercorrerne la strada verso una morte incerta “fuori dall’accampamento”.
L’imperativo interiore ineludibile per Benedetto fu andare verso Cristo portando il suo obbrobrio perché non abbiamo una città stabile (Eb 13, 13-14a).
Non viviamo solo gli uni per gli altri: i cristiani sono chiamati a vivere gli uni al posto degli altri.
Ciò che spinge ad appartenere a un monastero è una certa condivisione della consapevolezza di non risiedere in una città stabile e che la stabilità a cui si aspira, e forse si intravede, è una grazia - invisibile alla maggior parte.
Forse impercettibile anche allo stesso oblato (e sarebbe la grazia delle grazie), ma non a Dio
… che gli affida con questa invisibile osservanza di rigare il regno del visibile.
[1] La RB lo indica in questo modo: “altare” non mensa…
[2] L’uso per cui tra il III e il V sec. i cristiani avrebbero tenuto riservato di fronte ai pagani riti e credenze della loro religione.
[3]… insieme con l'oblazione della Messa e la mano del bimbo, offrendolo in questo modo (RB 59, 2b).
[4] Telo linteo steso sull'altare, di dimensioni tali da comprenderne l'intera superficie; utilizzato per l'appoggio delle oblate.
[5] Basilio di Cesarea, Le regole, [Regulæ fusius tractæ, quæstio 15], Qiqajon, Magnano 1993, pp. 125-130.
[6] San Basilio, Epistolario, a cura di Adriana Regaldo Raccone, Alba, Edizioni Paoline, 1968, ep. 119.
[7] Come si vede bene oggi nella chiesa, il ‘secolo/mondo’ non è determinato dalla residenza, ma dalla mentalità. Si può appartenere totalmente al secolo/mondo celebrando un pontificale di fronte alle televisioni e immersi in Dio spazzando le strade nel traffico della propria città.
[8] Se darà sicure prove di voler perseverare nella sua stabilità, dopo due mesi gli si legga per intero questa Regola. (RB 9, 58).
[9] Con un’eccezione però. La Regola prevale sulla stabilità quando a presentarsi è un prete. Benedetto è lontano da ogni forma di clericalismo, quello pomposo del passato e quello perverso dei nostri giorni. Al prete chiede innanzitutto di tenere i piedi per terra e rispettare la Regola… (RB 60).