CONTENUTI: I. UNA MINIATURA E UN FILO NASCOSTO – II. LA NUDITÀ È UN FILO - III. UNA GROTTA DI SUBIACO, UN PALAZZO DI ASSISI E UN FILO NUDO - IV. LA NUDITÀ RARAMENTE È COMODA – V. LA NUDITÀ È UN FILAMENTO SOPRANNATURALE.
I. Una miniatura e un filo nascosto
Conosci te stesso! L’antico oracolo di Delfi è tra quelle massime la cui sapienza ha sfidato il tempo attraendo generazioni di uomini. Allo stesso modo fu per i cristiani l’adagio Nudus nudum Christum sequi, nudo seguire Cristo nudo.
San Gerolamo nel 411 aveva scritto in una lettera[1] queste parole chiosandole da un detto paolino[2],ma anche interpellato da numerosi esempi di asceti che avevano già tentato di seguirle fin troppo alla lettera. Il pensiero corre per esempio all’esperienza di Maria Egiziaca (344-421) [3] che passò dalla nudità della prostituzione a quella ascetica nel deserto dove era coperta con i soli capelli.
Gerolamo possedeva una cultura raffinata, era brillante, tanto collerico quanto sfrontato e questo lo rendeva insopportabile o, all’opposto, affascinante. La libertà con cui parlava, unita a un carattere ribelle, giocò a suo sfavore nel desiderio di succedere a papa Damaso, come al tempo era consuetudine per i segretari.
Scappò in Oriente, non senza portarsi dietro il fior fiore della nobiltà femminile romana.
Divenne eremita tra eremiti, ma si rese ben presto conto che l’abito non fa il monaco e forse, da valente traduttore della Scrittura qual era, fece più di una considerazione sulle conseguenze del dramma seguito alla creazione dell’uomo: fece il Signore Dio ad Adamo e a sua moglie delle tuniche di pelle, delle quali li rivestì (Gen 3, 21).
Molti pensavano che queste tuniche indicassero il corpo mortale dell’uomo e questo aveva riflessi di non poco conto. Gregorio di Nissa[4] pensava ad esempio che l'uomo nello stato originale fosse nudo e ciò lo rendeva capace di vedere Dio e in ciò trovava il sommo piacere. Contemplare Dio era un’estroflessione che si dilatava nella misura in cui maggiormente si era immersi nella sua Luce.
Cristo è colui che con la sua morte e risurrezione ha redento l’uomo,
Gerolamo, dotato di un senso concreto della realtà e di una notevole efficacia letteraria, coniò uno splendido apoftegma:[5] seguire nudo Cristo nudo[6], sebbene richiedesse un cammino non esente da tormento documentato nel suo epistolario.
Vien da ripensare a tutto questo quando si può sfogliare, anche se solo digitalmente, le pagine del meraviglioso Codex Purpureus Rossanensis, custodito nel museo della cattedrale di Rossano Calabro, inoltrandosi in questo modo in un periodo lontano, tra il V e il VI sec, d. C. in quello che fu l’Impero Romano d’Oriente.
E’ il più antico manoscritto in onciale greca del Vangelo, scritto su pergamena finemente lavorata, tinta di porpora (caratteristica propria dell’ambiente della famiglia imperiale bizantina) e con quattordici pregevoli miniature conservate.
Un codice che è anche una leggenda. Fu prodotto probabilmente ad Antiochia di Siria e in seguito giunto in Occidente forse attraverso un passaggio da monastero a monastero, forse portato da monaci in fuga durante la persecuzione iconoclastica (VIII sec.), forse come corredo di nozze della principessa bizantina Teofano, sposa dell’imperatore Ottone II (982).
Tante ipotesi, ma una certezza colma di un misterioso richiamo interiore: da quel periodo, per circa mille anni, non si ha più notizia del codice fino al suo ritrovamento nel 1831 grazie al lavoro di Scipione Camporota, canonico della Cattedrale di Rossano, al quale si devono una prima sistemazione e l'attuale numerazione delle pagine con inchiostro nero. Nel 1846 fu portato agli onori delle cronache nazionali dallo scrittore e viaggiatore Cesare Malpica nel saggio "La Toscana, l'Umbria e la Magna Grecia: impressioni". Nel 1880 gli studiosi tedeschi Oskar von Gebhardt e Adolf von Harnach giunsero fino a Rossano e trovarono il codice in un armadio della sacrestia fra carte impolverate e ne chiesero l’acquisto (che grazie a Dio fu negato!). Lo studiarono ponendolo in tal modo all’attenzione degli studiosi europei e del resto del mondo pubblicandolo a Lipsia: Evangeliorum Codex Graecus Purpureus Rossanensis.
Alcuni fogli contengono miniature isolate, tanto da far supporre che potessero esse usati come schede a sé stanti per illustrare il brano durante la lettura[7]. Tra queste, l’attenzione è attratta dalla parabola del buon samaritano con un singolare elemento di attrazione, sebbene apparentemente ovvio.
Nei secoli si è costruita un’abitudine interpretativa intorno al racconto del buon samaritano, conseguente a una certa dose moralizzante contenuta nelle sue immagini narrative.
Siamo abituati, infatti, a una lettura un po’ appiattita sull’invito alla compassione e generosità verso gli altri e, da ultimo, alle reprimende antigiudaiche contro i farisei e i sacerdoti che smascherano la cattiva fede di chi le propone[8].
E’ bene ricordare, di fronte a questa produzione artistica, che le miniature del manoscritto seguono la logica dell’oriente cristiano. Non ci si limita alla ‘rappresentazione’ bensì si ricerca l’esegesi del testo che s’illustra.
Si tratta di una lettura allegorica tipica del periodo risalente a Ireneo, Origene e in genere ai Padri della Chiesa di quel tempo.
In quest’ambiente, quindi, la miniatura (come sarà per l’icona), attraverso le immagini è una strategia per permettere a chi guarda di venire a contatto in qualche modo con il Trascendente, con Cristo che adempie le Scritture.
Nella miniatura del Codex, Gerusalemme è rappresentata come il Paradiso da cui l’uomo si allontana. Il Samaritano è Gesù, l’uomo ferito è l’umanità che ha peccato. In contrasto con il testo di Luca, è visibile un angelo che segna la presenza di Dio. E’ andata persa gran parte della raffigurazione della locanda che rappresenta la Chiesa.
In prima battuta (teniamo a mente l’aspetto scontato del testo) è straniante la presenza di un angelo che viceversa cattura subito l’attenzione e suggerisce un possibile viaggio ‘oltre’ i nostri schemi abituali di comprensione.
Non è forse, però, un po’ il compito dei diversi angeli che s’incontrano lungo tutta la Sacra Scrittura il curare l’uomo al quale sono inviati (Tob 5, 12-13, 15)?
Nella miniatura l’angelo non si limita a essere una presenza, offre movimento alla scena porgendo una vesta bianca.
Questo bianco della veste s’imprime nella mente ed entra in sintonia con il lavoro che la memoria è indotta a svolgere e invita a osservare ancor meglio il malcapitato del quale è evidente la nudità.
Incuriosisce l’offerta di una veste bianca da parte dall’angelo; una ricerca tra le riproduzioni di questo passaggio evangelico prodotte nei secoli non evidenzia rappresentazioni di angeli e neppure della nudità dell’uomo che con l’andar del tempo si sfoca in un accenno.
L’incontro con la tela a grandezza d’uomo del buon samaritano del pittore francese Aimé Moriot (1880) rompe la monotonia interpretativa. Inutile cercare l’angelo in questo dipinto realista, però l’angelo ha comunque svolto il suo compito curativo nei confronti di una comprensione più ampia della parabola[9]…
Moriot riproduce il brano del Vangelo in modo piuttosto letterale: il buon samaritano è tornato a essere, come nel testo originale, un ebreo povero, ma non misero e si fa carico del viandante malcapitato che ha invece ineluttabilmente le nette sembianze di un Cristo michelangiolesco ed è nudo.
Siamo di fronte a una rappresentazione, rarissima in occidente, di ostentatio genitalium[10].
A pochi decenni dalla riscoperta della miniatura, la tela di Moriot riesce a interloquire con l’antico artista del Codex e accostando le due opere, si ha come l’impressione che effettivamente sia caduta una membrana dagli occhi (Tob 11,14). In entrambi i lavori, sebbene sia il realismo – veritiero e pudico - di Moriot a rivelarlo, emerge un dato che tanti (ma non tutti) nella predicazione e nella storia dell’arte cristiana hanno ‘castamente’ (sic!) coperto: la nudità.
Non sembri una licenza fuori luogo, soffermarsi sulla nudità. Il suo significato permette una lettura puntuale e concreta della missione unica e redentiva di Cristo che emerge dal quadro complessivo della parabola e che si potrebbe sintetizzare con quelle parole presenti fin dai primordi della Scrittura: Ora vedete che IO SONO e nessun altro è dio oltre a me. Sono io che dò la morte e faccio vivere; io percuoto e io guarisco e nessuno può sottrarre dalla mia mano (Deut 32, 39).
II. La nudità’ è un filo
Nel testo greco originale, l’evangelista Luca (l’unico che riporta la parabola [[Lc 10, 30-37]) narra che l’uomo incappato nei ladri è spogliato. Il verbo usato è ἐκδύσαντες[11] che compare in alcuni luoghi del Nuovo Testamento. Mt 27, 28 allorché Gesù è condotto nel Pretorio dove i soldati lo spogliano e gli mettono il manto e poi (v. 31) lo denundano. Mc 15, 20 dove è scritto che Gesù viene spogliato del mantello di porpora. Infine 2Cor 5, 2-4 Perciò sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste: a condizione però di esser trovati già vestiti, non nudi. In realtà quanti siamo in questa tenda, sospiriamo come sotto un peso, non volendo venire spogliati ma sopravvestiti, perché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita[12].
Paolo usa il verbo ἐκδύω con il senso traslato di perdere l’involucro del corpo e queste parole aprono alla consapevolezza della percezione dell’inermità che si esprime nel corpo e alla necessità di essere realmente vivi, cioè di non aderire all’infedeltà (di Adamo) che comporterebbe il deporre con la morte il corpo mortale senza essere rivestiti di quello celeste. Genesi (3, 1-11) si dilunga sull’infedeltà invitando a considerare la percezione della dimensione ambivalente e ambigua della nudità/inermità come passaggio privilegiato per iniziare un cammino di distacco dal peccato.
Nel brano evangelico, la parabola è introdotta da una richiesta subdola su cosa si debba fare per avere la vita eterna (Lc 10, 25) e nel rispondere Gesù rimane sullo stesso piano di concretezza dell’esperto giurista che gli si rivolge per tentarlo. La tentazione è dunque il primo elemento in gioco di una rappresentazione non elementare.
Apparentemente il racconto di Gesù esprime una quasi ovvietà: è misericordioso chi si occupa dell’altro in quello di cui ha bisogno sul momento e ciò accontenta e smaschera la doppiezza del quesito.
Nasce l’interrogativo sul motivo per il quale sia così arduo essere realmente misericordiosi!
Siamo, perciò, rinviati alla vera posta in gioco che riguarda la realtà sostanziale del peccato quale distacco da Dio, ripiegamento su se stessi (la caduta nella finitudine[umana]). Il preciso accento sulla nudità completa del malcapitato (che in genere, come si è detto, nelle rappresentazioni è sottaciuta fino al suo dissolvimento) svela la consistenza concreta della ferita: l’inermità. Ogni volta che il nostro corpo è colpito dalla violenza, dalla malattia o da grandi dolori, la prima percezione è l’esperienza di quanto siamo inermi.
Non è l’unico aspetto. La nudità/inermità è ambigua perché può diventare via di accesso privilegiata alla conoscenza di quel mistero dell’intimità che ci pone in modo unico di fronte a Dio, nostro Creatore, ma anche segno dell’astuto demonio accovacciato alla nostra porta (Gen 4, 7b).
Il malcapitato del Codex avrebbe potuto coprirsi con la veste presentata dall’angelo, come mai, invece, vi siede sopra mentre è portato sull’asino verso la locanda? E’ un dettaglio interessante da tener presente.
L’esegesi allegorica seguita dalla miniatura vede nella locanda il simbolo della Chiesa. L’uomo vi giunge nudo, perché così l’ha ridotto il peccato a seguito della sua incapacità/impossibilità di resistere alla dinamica della tentazione.
Non ha saputo comprendere che la richiesta di astenersi dal mangiare il frutto dell’albero è una preoccupazione amorevole posta da Dio per proteggere la libertà dell’uomo non per reprimerla (Gen 2, 17).
La qualità della vita nel giardino dell’Eden (che è vita in Dio) era giocata sulla libertà e per l’uomo il vestito era un non-senso poiché il suo corpo nudo non era impasto di materia mortale (cfr. Jo 20, 19; Lc 24, 39) e la nudità perciò non implicava disagio (Gen 2, 25).
Non c’era spazio per quell’emozione secondaria che è la vergogna, risultato del miraggio dell’onnipotenza umana andata in frantumi (Gen 3, 7). Non era ancora avvenuto quello strano mutamento nell'uomo per cui la dimensione fisica entra in contrasto con lo spirito e viceversa.
L’illusione del demonio: sarete come Dei, conoscitori del bene e del male (Gen 3, 5b) consisteva in un inganno dell’immaginazione che proiettava nella mente dell’uomo la possibilità di modificare i processi strutturali della creazione, inducendo l’idea di poter scegliere se essere creatura o Creatore.
Il contraccolpo fu, appunto, l’esplosione della consapevolezza della propria inermità, l’onnipotenza bramata, mutata in inermità assoluta, che è sguardo su di sé privo della luce di Dio, del suo Spirito.
Con quella scelta l’uomo era arrivato sul limitare del baratro ma Dio Padre, nel suo Figlio[13], ha deciso di andare con lui.
La prima reazione a questa catastrofe dell’anima fu il pudore[14] (Gen 3, 7), tentativo di preservare di fronte a se stesso e agli altri ciò che era successo, cioè la dissociazione tra Creatore e creatura, il corpo reso dis-ordinato, dis-armonico, amico e nemico e, soprattutto, inerme.
Il pudore come reazione protettiva all’inganno dell’immaginazione aveva aperto la strada alla vergogna, sorella gemella della lussuria che è desiderio decaduto, bisogno sregolato che da quel momento affligge l’essere umano.
Nonostante ciò, la vergogna fu comunque un dono per Adamo e Eva. Sarebbero crollati per la disperazione conseguente all’assoluta esposizione della perdita di sé quale esito del peccato.
La vergogna di Adamo ed Eva testimonia, inoltre, la non coincidenza dell’uomo con la bestialità.
La progressione della civiltà spirituale consisterà, infatti, nel ricercare un’armonia che moderi lussuria e vergogna, trasformandole in desiderio e riserbo.
Il prevalere dell’una sull’altra reca con sé esiti catastrofici.
Non è facile confrontarsi né con la propria inermità e neppure con quella degli altri. L’uomo ha sempre cercato di evitarlo. Nell’ultimo secolo ha percorso un cammino a ritroso: estirpare la vergogna, iniziando a erodere aggressivamente il (senso del) pudore.
Cogliendo dell’albero, il serpente aveva avuto perfettamente ragione, ma in modo grottesco. Gli occhi di Adamo e Eva si erano aperti, erano divenute persone “illuminate”, ma la loro prima scoperta fu che erano nudi!
La coscienza di essere nudi è rendersi conto che è visibile qualcosa che non dovrebbe essere così. Questo è il sentimento di vergogna che ha le sue radici nel rendersi conto che la vera vocazione dell'umanità era giocata altrove. Finché l'umanità è completamente in Dio[15] è inesistente la vergogna per una qualche parte del proprio corpo...
In quel momento di vergogna si generò una torsione perché l’uomo intraprese a usare l’intelletto non per scoprire fatti ma per nasconderli: il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: "Dove sei?". Rispose: "Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto" (Gen 3, 9-10).
Dio aveva affidato ai progenitori il suo Paradiso e ora essi sapevano di essersene spogliati.
Diventa interessante soffermarsi sul significato delle parole di Adamo "perché sono nudo".
Non dimentichiamo che la radice ebraica del termine nudo (arum) è la medesima del termine astuto (arom). La nudità è intinta nell’astuzia demoniaca e diventa distanza e barriera dal Creatore. Dio si offre alla vista dell’uomo nell’aura dolce del declinare del sole al momento in cui tutta la natura rifulge (Gen 3, 8), ma era scesa l’ombra.
Abituati come siamo a svariate forme di obbedienza passiva (soprattutto nella chiesa), è difficile probabilmente comprendere che la libertà di Adamo ed Eva era obbedienza che consisteva nel vivere in Dio; della bontà del quale erano ricolmi. Forma suprema di beatitudine.
Privato della grazia e della giustizia originale, l’uomo sperimenta i primi frutti di quella dura legge che ormai regna nelle sue membra e contrasta la legge dello spirito.
L’uomo si scopre un amalgama di materialità e animalità, con uno sguardo diverso nei confronti del proprio corpo che si affaccia alla dilacerante dualità dei sessi, all’insanabile opacità dei sensi e della corporeità che offusca in modo decisivo la visione di Dio, sua fonte di vita.
Nudità è distacco da Dio.
Un freddo che avvolge l’uomo dall’interno.
Ricorda la Scrittura: non hai servito il Signore tuo Dio con gioia e letizia nell'abbondanza di tutte le cose (Deut 28,47).
Qui è l’origine della paura che segue il peccato; un lascito che incalza l’uomo come una forma d'incapacità di rallegrarsi/benedire ed è il primo segno di decadenza e decadimento.
Le parole di Genesi: … e in polvere ritornerai (Gen 3, 19) segnano l’ostacolo che incontra l’uomo decaduto quando voglia predisporsi a vedere Dio; il cammino per ritornare a quell’innocenza attraverso l'uomo è, infatti, assai impervio, incerto e misterioso[16].
III. una grotta di subiaco, un palazzo di assisi e un filo nudo
In questa prospettiva la nostra miniatura sembra condurci per mano a decifrare la nudità fisica come rimando alla frattura tra l’umanità e Dio e come sentiero da ripercorrere per comprendere qualcosa del nostro rapporto con Lui.
In Genesi la nudità è intimità violata perché oltraggiata, pur tuttavia, rimane luogo privilegiato d’intersezione tra Dio e l’anima, una stazione di posta in una notte di bufera per peccatori e santi, cioè, come si diceva, un’autentica via di accesso a Dio.
Dobbiamo affrontare la portata di questo passaggio epocale che fu il peccato originale, ma dobbiamo aver chiaro la trasformazione culturale avvenuta all’inizio del XX sec. L’introduzione del doppio senso a sfondo sessuale in molte parole di uso comune si instaura con la prima guerra mondiale. La contiguità della morte che ha toccato milioni di uomini, le esperienze estreme dell'uccidere e del morire, lo strapotere delle ‘macchine’ ha modificato l’immaginario dell’uomo spingendolo ad aggrapparsi alla vita con una bramosia ossessiva. Il trauma della propria inermità di fronte a un evento incontrollabile – la guerra – fu esorcizzato con la ricerca di forme estreme di piacere dissoluto e dissolvente[17].
Il peccato è sempre una forma di buio e forse possiamo trovare ispirazione volgendoci a guardare quei cristiani che ci hanno preceduto lasciando traccia del loro coraggio di attraversarlo, illuminando in questo modo molti altri.
Ripensiamo a quella miniera d’insegnamento che è la vita di san Benedetto nella lettura offerta da Gregorio Magno. Il primo capitolo dei Dialoghi termina con l’annuncio a Benedetto del giorno della Pasqua, dopo tre anni di eremitaggio nella grotta dello Speco in assoluto isolamento. Qualcuno si è accorto di lui e la fama pone l’eremita all’attenzione della popolazione del luogo.
Si potrebbe supporre che la fama (i ‘contatti’ diciamo noi oggi) ne decreti la maturità (e quindi) la santità. Gregorio non la pensa per nulla così; la fama (il successo) è una realtà irrisoria. Porta le tentazioni e nel capitolo successivo Benedetto deve farci i conti.
Un tempo egli aveva veduta una donna ed ora lo spirito maligno turbava con triste ricordo la sua fantasia. E fiamma sì calda il diavolo suscitò nell'animo del servo di Dio con quella appariscente bellezza, che egli non riusciva più a contenere il fuoco dell'amore impuro e già quasi vinto stava per decidersi ad abbandonare lo speco. Fu un istante: illuminato dalla grazia del cielo, ritornò improvvisamente in se stesso. Visti lì presso rigogliosi e densi cespugli di rovi e di ortiche, si spogliò delle vesti e si gettò, nudo, tra le spine dei rovi e le foglie brucianti delle ortiche (Dialoghi II, Roma, Città Nuova, 2000, II.I,5- 8 , pp. 138-141).
Esaminiamo più da vicino il racconto di Gregorio. Benedetto (primo capitolo) trascorre tre anni nello Speco e, almeno nelle parole del biografo, non sembra succedere nulla. Il racconto non si focalizza sulle azioni, i pensieri, le preghiere compiute da Benedetto, ma su ciò che Benedetto riceve.
Nell’economia della salvezza, non è importante quello che facciamo noi. La salvezza viene da altrove (ex auditu Rom 10, 17), ciò che ha rilievo è la nostra capacità/disponibilità ad accoglierla (a benedire).
Il cibo offerto dal monaco Romano diventa preludio/simbolo del messaggio raccontato in questo primo quadro: l’annuncio della Pasqua che giunge totalmente dal di fuori del suo mondo, da un prete sconosciuto.
L’annuncio pasquale è propedeutico alla comprensione di sé che Benedetto è chiamato a raggiungere (non per la propria santità, ma per gli altri) perché solo a quel punto Benedetto, nella lettura che propone Gregorio, sarà pronto a essere indotto in tentazione.
E’ alla luce di questo che si comprende ciò che succede nel secondo capitolo, quando Benedetto scopre dentro di sé il risveglio della concupiscenza[18]. La solitudine, la stanchezza, la fame, forse la noia, assumono l’aspetto di un corpo nell’immaginario mentale che si sostituisce alla realtà rendendo precario anche l’approccio ascetico. Da qui la necessità colta da Benedetto di affrontare nel corpo l’ambiguità della percezione della propria nudità (e quindi della debolezza) e recuperare con un’imitatio Christi letterale, non senza pericoli personali, quella nudità e ferite che già erano state del Signore durante la Sua Passione[19].
Non più un atleta dello spirito, ma un discepolo che si rispecchia nell’esempio del suo Signore.
Gregorio sembra volerci indicare che non si corre solo il rischio di mancare la propria felicità, ovunque la si intenda cercare, ma anche la propria colpa decisiva [20], indispensabile per raggiungere la propria totalità perché solo allora siamo liberati da noi stessi e possiamo andare verso Dio attraverso di Lui.
Benedetto in quel momento, ha paura, ma non fugge.
Dove c’è paura, lì si trova il nostro compito.
Avrà riflettuto sulle fantasie che lo tormentavano per comprendere cosa fare e da dove cominciare, perché le nostre fantasie costruiscono sempre su una mancanza da compensare.
Benedetto intuisce che non si deve discutere sul ‘passato’, sul retroterra di una tentazione, perché la tentazione è un compito che è richiesto oggi. E’ certo possibile alleggerirsi di qualche conflitto chiudendo gli occhi, ma se non sono affrontati, le dissonanze tenderanno a ripresentarsi.
Gettandosi nudo tra i rovi, Benedetto comprende il senso della sua ‘colpa’. Scoprendosi preda della concupiscenza accetta, diremmo con espressione moderna, un lato della propria personalità che l’avrebbe reso forse poco ‘attraente’, agli occhi di molti. Abbraccia la propria inermità di uomo e, lanciandosi tra i rovi, è come si lanciasse nudo sulla croce, perché affisso alla croce c’è Lui, che è l’unico che compie (crea) e la croce è l’unica via attraverso cui possiamo arrivare a Dio. E’ rinuncia ad afferrare quel frutto (Gen 3, 6c) per lasciare spazio alla grazia di Dio in noi.
Per tutte le altre strade ci sentiamo meritevoli di qualcosa, di fronte alla nostra croce capiamo che possiamo solo benedire perché Dio non ci manda le croci, ci aiuta a portare il peso della nostra.
Non è un caso che Gregorio termini la sua storia con quest’osservazione: Dopo ciò, molti abbandonando la vanità del mondo, accorrevano gioiosi sotto la sua disciplina e giustamente, libero ormai dall'insidia della tentazione, egli poteva farsi per gli altri maestro di sante virtù. Del resto anche Mosé aveva avuto da Dio questo comando: che i leviti dai venticinque anni in su prestino i servizi nel tempio e dopo i cinquanta diventino custodi dei vasi sacri dell'altare (Idem, cap II, pp 142-145).
Benedetto compie un autentico passaggio dalla fama, pur sempre vuota e fragile (i ‘contatti’ molteplici ma superficiali!) alla costruzione di relazioni creative.
Non è, infine, dettaglio di poco conto che tra l’annuncio della Pasqua e la vittoria su questa tentazione trascorrano anni e Gregorio lo sottolinea, convinto che è nell’età matura che si può diventare custodi dei vasi sacri, cioè guide e maestri delle anime (Id.).
La solitudine è luogo privilegiato per venire a patti apertamente con la propria anima e Benedetto ne compie il percorso drammatico nella solitudine aspra dello Speco.
Il Poverello di Assisi, invece, esplora una solitudine altrettanto austera e feconda in uno dei palazzi del potere del tempo: il palazzo del vescovo. Lì raccoglie il filo nudo che lo legherà al Padre.
Convocato dal vescovo su richiesta del padre, furioso per le stranezze del figlio, il Santo, come raccontano i biografi: si toglie tutte le vesti e le getta a terra, rendendole al padre. Non ritiene nemmeno le mutande[21] [...] Ed eccolo ormai lanciarsi nudo contro il nemico nudo[22]. Tutte le fonti sono concordi su questo denudamento totale che sconcertò gli astanti in cui è certo in gioco l’adesione radicale a Cristo, ma in primo luogo la riformulazione dello statuto della paternità umana e a tal fine il Poverello ha parole prive di ambiguità: Ascoltate tutti e comprendete. Finora ho chiamato Pietro di Bernardone padre mio. Ma dal momento che ho fatto proposito di servire Dio, gli rendo il denaro per il quale era irritato e tutti i vestiti avuti dalla sua sostanza, e d’ora in poi voglio dire: ‘‘Padre nostro, che sei nei cieli’’, non ‘‘padre Pietro di Bernardone[23].
Se si prova un dolore nella vita, quel dolore è più che probabilmente il dolore dell'uomo che non è tutt'uno con suo Padre/padre. Il dolore di non esserlo, è più doloroso di ogni altra cosa, tranne, forse, il dolore di essere tutt'uno con il proprio padre terreno…
Quel giorno la nudità del Poverello smontò un meccanismo fuorviante della relazione parentale, aprì un dolore impastato di vergogna e sofferenza che non riusciva a esprimersi che in maledizioni da parte del padre, mentre il figlio gli ricordava il primato di Dio: Non credi che Dio possa darmi un padre che mi benedica, contro le tue maledizioni? (FF 1423-4).
Il Santo ripristinò l’autentico senso della sola e veramente genuina paternità, ritornando alla comune fraternità (cosa ben diversa dalla fratellanza ideologica inventata in anni recenti[24]). Con il suo gesto, in un certo qual modo, tentò/convocò Dio per ripristinare, con l’esposizione assoluta della propria nudità, la ricomposizione di quel dialogo aldilà delle parole tra il Creatore e la creatura che precedeva la caduta.
Come aveva scritto l’apostolo Paolo (cfr. 2Cor 5,4,) il Poverello denudandosi fino all’esposizione dei propri genitali volle riposizionare il corpo nello stato che possedeva prima della caduta di Adamo.
Da quel momento la sua vita tenta di ripristinare il colloquio silenzioso e l’amore infinito che intercorreva tra Dio e la sua Creatura.
Nudità e povertà non sono intercambiabili; il Santo non ha restituito le vesti al suo padre naturale per essere povero, ma divenne povero/inerme per dipendere esclusivamente da Dio, come nell’Eden. Sceglie la povertà riscattandola dalla miseria con una nudità intransigente dal potere, denaro e beni.
La storia del cristianesimo purtroppo insegna che quella strada (è il Vangelo!) (fu) è solo per pochissimi, quasi mai per ecclesiastici, perché nell’uomo perlopiù prevale la paura che il timor di Dio.
Dal momento della caduta di Adamo a dominare è stata la morte che su ogni cosa stende un velo di dolore e malinconia.
Le fonti ci tramandano un’invocazione costante sulle labbra del Poverello: Deus meus et omnia. Una calma cantilena di fronte alla spada fiammeggiante del cherubino che custodisce la via dell'albero della vita (Gen 3, 24b) che cerca una piccola fessura per aver parte dell'albero della vita e [poter] entrare per le porte nella città (Apoc 22, 14b).
Su questo sentiero l’umile frate minore intreccia un nuovo equilibrio tra desiderio e riserbo, prefigura un’armonia possibile fin da ora tra il Padre nei cieli e l’uomo.
Sia nella Vita Secunda di Tommaso da Celano che nella Legenda Maior di san Bonaventura abbiamo un episodio presente associabile all’esperienza sopra ricordata di san Benedetto, seppure in una dinamica diversa.
Occorre leggere insieme i due brani.
Il Poverello si trova nell’eremo di Sarteano, è notte, il demonio fa leva sulla solitudine e probabilmente sulla povertà che caratterizza il luogo, quel buio freddo che entra nell’anima e che neppure le fiamme di un focolare riesce a stemperare. Il demonio preme sulla mente e nell’anima del Santo con l’immagine della rigidità delle sue penitenze (tipiche parole demoniache, astute e attualissime che ascoltiamo pressoché quotidianamente[25]…).
Il Poverello non demorde; ed entra, quindi, in azione la lussuria, il principale pungolo del vuoto interiore. La reazione del Santo è di aumentare la penitenza fisica, ma è un miraggio, come spesso succede con le penitenze che toccano il corpo: non fanno altro che eccitare ancor di più la mente, offuscando l’anima, perché il nostro corpo è mortale.
Sul punto di essere sopraffatto, il Poverello uscì e si immerse nudo nella neve alta. Prendendo poi la neve a piene mani la stringe e ne fa sette mucchi a forma di manichini. Tommaso e Bonaventura[26] hanno analoga descrizione, ma il primo, più sobrio e concreto, scrive che il Santo: comincia a parlare così al corpo ecc.
Tommaso comprende che il Poverello è riuscito a riportare il dialogo fuori da sé, mentre l’immaginazione lo imprigionava totalmente dentro di sé.
Non solo: le fonti precisano che con la neve il Santo modellò dei manichini e li immaginò come la sua famiglia[27].
L’episodio narra uno scontro con la paura[28] abbracciando la propria nudità; già Benedetto l’aveva sperimentato. Nel Poverello appare come un tentativo di riparare la nudità per restituirla all’integrità che riallaccia l’anima all’innocenza perduta.
Sull’accaduto i biografi citano la presenza di un frate testimone: per Tommaso il frate vede e il Santo gli chiede di tacere. Per Bonaventura, il frate vede, ma il Santo svelò al frate come la tentazione si era svolta.
E’ un dettaglio importante perché richiama a una visione della tentazione positiva e aperta alla vita e non solo come ricerca di un piacere fine a se stesso[29].
L’esposizione del corpo nudo al freddo (neve, ghiaccio, lago, mare ecc) come azione terapeutica contro lo strapotere dell’immaginazione, ebbe larga fortuna[30] non solo nei confronti della concupiscenza strettamente sessuale. Per il Poverello fu una strategia più ampia per evidenziare/correggere stili comportamentali non coerenti con il Vangelo, è possibile che i testimoni abbiano lasciato traccia come grato ricordo di efficacia (FF 795; 2684).
La nudità è presenza costante nelle fonti legate all’esperienza del Poverello di Assisi, famoso è l’episodio, riportato da diversi autori, in cui il Santo, temendo di apparire ipocrita per essersi concesso qualcosa, si fece portare nudo (ma in questo caso con le mutande) con una corda al collo per mostrare la sua santità fasulla; oppure invia il compagno Rufino, nobile ma timido, a predicare nudo (ma con le mutande) nella cattedrale di Assisi per vincere la sua ritrosia a parlare in pubblico.
Il movimento che scaturisce dal Santo, che farà della povertà il proprio elemento distintivo, evidenzierà nella nudità ricercata dal Santo (ma ‘castigata) un emblema; in realtà l’esigenza sottostante ai gesti di spogliazione messi in atto dal Poverello pone l’accento sulla necessità di un ritorno alla nudità originale di Adamo.
Il corpo è il vestito che Dio dà all’uomo dopo la caduta, ma è comunque ostacolo per la visione di Dio, altro, infatti, sarà il corpo dopo la risurrezione.
Definendo frate asino il corpo, il Santo relativizzandone il valore funzionale, si pone in antitesi al sentire comune.
Nelle grandi penitenze che il Poverello fece durante la sua vita – oggi del tutto volutamente scotomizzate - è presente il tentativo, forse anche romantico, di superare il corpo, di continuare, estenuando frate asino, a mantenere quello slancio del giorno lontano in cui tutto nudo aveva avuto il coraggio di chiamare Dio suo vero Padre.
Gli occorreranno anni e sofferenze per comprendere che tutto quell’impegno è comunque nulla di fronte a una Fede grande come un granello di senape.[31] A suggello di quest’ultimo passo di spogliazione in quel momento Dio lo bacerà e trasfigurerà con i segni delle sue ferite.
Cercò nudità e ferite, come Cristo nella sua Passione e in questo rimase singolare nella storia cristiana al punto di essere percepito e indicato come Alter Christus perché il suo amore per Cristo fu tale che parve divenire un sacramento delle Sue piaghe.
Non senza commozione, si guarda a lui e si vorrebbe partecipare del suo anelito verso Dio: Quando mi vedrete ridotto all’estremo, deponetemi nudo sulla terra come mi avete visto ieri l’altro, e dopo che sarò morto, lasciatemi giacere così per il tempo necessario a percorrere comodamente un miglio (FF 810).
IV. La nudità raramente è comoda
Siamo in un’epoca che ha sbriciolato il pudore, silenziato la vergogna, denudato il corpo per abusare dell’anima. Si è iniziato con l’esibire la nudità femminile contrabbandandola come espressione di libertà e autodeterminazione mentre in realtà si è dimostrata, a tutti gli effetti, una strumentalizzazione mercificante.
Si è passati, poi, alla nudità maschile.
Gli antichi greci la rappresentavano come canone di giuste proporzioni e non temevano di ‘proporzionare’ a questo fine gli elementi del corpo che potevano contrastare l’ideale, in primo luogo gli organi genitali.
Per i greci rispecchiarsi nella bellezza come compostezza aiutava la mente a trovare equilibrio e quiete ammirando l’armonia delle forme fisiche di un’opera artistica.
La nostra esibizione del nudo maschile ha preso piede negli ultimi trent’anni, deprivando del riserbo che l’uomo ha sempre posto a protezione del corpo, ne erode anche quelli che appaiono come gli ultimi frammenti di vergogna, visti come inutili barriere per l’affermazione insolente di sé e perciò tanto più (tragicamente) fragile.
L’esposizione sfacciata della nudità è considerato segno distintivo di avanguardia, di riscoperta di sé, di moderna rivalutazione del vivere erotico che sarebbe un bene, se non adottasse strumenti creati dall'esterno che usano il corpo privandolo di una vita interna e mostrandosi al contempo senza grandezza e semplicità. Una variazione in parte ludica e illusoria di vivificare il corpo, ma alla quale sfugge la sua autentica realtà.
In questo processo la vergogna è irrisa e ricacciata nel fondo della mente, non scompare però, anzi diviene potenzialmente un’incontrollabile emozione disperante[32].
Non può, dunque, sorprendere il ruolo di assoluto rilievo della pornografia, dark side della nostra società avida e crudele, vero pozzo di quella disperazione che alberga nei bassifondi della psiche e che è assai difficile da lambire.
Dolorosissimo anfratto sotterraneo della mente che ferisce l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio in quella che è una sua dimensione essenziale: la sessualità.
L’uomo si scopre lacerato, costretto a cercare sempre e comunque una soddisfazione mai raggiungibile e che obbliga ad assaggi sempre più stravaganti.
Luogo di profonda impersonalità, di straniamento mentale eccitato in cui lo smarrimento non permette (né riesce a trovare) un soggetto reale di confronto e vaga come un’anima sospesa.
Siamo di fronte a una disperazione abissale e assai particolare perché il crearsi di una struttura psichica che si alimenta con la soddisfazione dell’impulso vive di un paradosso: la scomparsa di ogni soddisfazione (lo rilevavano già gli antichi). Rimane quella spinta verso l’eccesso, luogo di estrema solitudine e vergogna all’apparenza irredimibile.
E’ il parossismo dell’inganno dell’immaginazione portata agli estremi limiti (Gen 3, 6).
Un urlo ostico d’aiuto che invoca la presenza di qualcuno disponibile a una presenza di ascolto silenzioso per tracciare così una frontiera virtuale (sebbene destinata pressoché innumerevoli volte a essere violata[33]) con la quale tutto ciò che nell’immaginario aggroviglia il cuore e la mente - e distrugge - possa essere distrutto nello sguardo benevolo di un altro[34]. Almeno per un attimo!
Sguardo non in cerca della dimensione della responsabilità colpevole e neppure sciapo di una banale misericordia ma disposto a conoscere il dolore e, nonostante questo, rimanere fermo in un’affabilità e pazienza che guardano all’infinito, cioè a Dio.
L’esposizione della nudità nel mondo contemporaneo sembra avere i tratti di un immenso antidolorifico collettivo, forse un’autentica allucinazione demoniaca, un’illusione che gli uomini inseguono per riparare pezzi della loro anima agonizzante.
L’abitudine alla nudità come esperienza ‘naturale’ non è indice di libertà, come siamo condizionati a credere, ma sottomissione al potere e alla violenza.
Si pensi all’uso ‘scientifico’, di sinistra memoria, nelle selezioni dei campi di concentramento dove prima della morte si annientava in questo modo l’essere umano e ancor oggi nelle prigioni dove il denudamento con le perquisizioni in ogni orifizio del corpo rende il carcerato immediatamente consapevole della diminutio della sua umanità.
E potrebbe continuare l’elenco dei luoghi, dove si manipola l’individuo attraverso la nudità.
Dovremmo di diffidare di ciò che tutti fanno, rammentiamo che non c’è difesa più solida di un parto dell’immaginazione.
La nudità raramente è comoda, lo sperimentò anche il malcapitato della parabola. Il Codex lo pone in rilievo nel suo immaginario interpretativo; lo abbiamo lasciato soccorso dal Samaritano/Cristo e dall’angelo e lo ritroviamo seduto – nudo – sulla veste bianca offerta dall’angelo in groppa all’asino.
L’angelo vestito di bianco è annuncio di resurrezione (Mc 16, 5; Jo 20, 12; Act 1, 10) e la veste bianca offerta è sinonimo di veste battesimale; non si tratta di un semplice vestito per coprirsi sebbene.
Come insegnavano i Maestri di Israele[35], esiste una speciale benedizione mattutina per l’atto del vestirsi, importante perché distingue l’uomo dall’animale. Il vestiario trae origine da un’azione divina. Vestendoci facciamo memoria della creazione, nasciamo nudi ma poi siamo vestiti e non possiamo rimanere nudi.
E’ il rischio che corre l’uomo incappato nei ladri e l’angelo, con il suo gesto, ricorda l’invito a essere rivestititi delle vesti bianche, affinché non compaia la vergogna della nudità [il peccato] (Apoc 3, 18).
Il buon Samaritano/Cristo accompagna lo sventurato verso la locanda/Chiesa.
La parabola è perentoria: non c’è altra possibilità di salvezza se non quella strada e quella locanda.
Erano in grado gli esperti della Legge che avevano interrogato Gesù di comprendere la profondità della loro stessa domanda?
La vita eterna di cui domandavano conto non era semplice ricerca di una sicurezza identitaria…
La suddivisione in capitoli del Nuovo Testamento è opera tardiva[36], eppure può offrire un’illuminazione. Il capitolo che contiene la parabola del buon Samaritano ha come epilogo il colloquio tra Marta, Maria e Gesù (Lc 10, 38-42) in cui il Maestro afferma che Maria ha scelto la parte migliore che non le sarà tolta.
Un’antica esegesi leggeva nella trasgressione di Adamo ed Eva il tentativo e la volontà di trarre la conoscenza, elemento spirituale, dal frutto, elemento materiale. Spostando così il baricentro dalla situazione di beatitudine dello stato contemplativo nel quale viveva l’uomo prima della caduta (per il quale non occorreva il sudore della fronte) a quella frenesia prensile che non sa attendere, che non riesce a fermarsi e corre il rischio di dissociare il corpo dalla mente dissimulando la paura, tipica dell’uomo.
Gesù rammenta a Marta che il suo affannarsi ricorda questo stato inquieto: Marta, Marta, tu ti affanni, e ti inquieti per un gran numero di cose (Lc 10, 41). Maria sceglie la parte migliore non per sfuggire all’impegno intrinseco anche all’uomo prima della caduta (Gen 2, 15), ma perché attraverso la Fede si ricostruisce nell’essere umano la forza che proviene da Dio, la parte migliore.
V. la nudità è un filamento soprannaturale
Se Dio ci domandasse, come ad Adamo, dove siamo in questo momento oscuro, cosa gli risponderemmo?
Anche noi, come Adamo, ci nasconderemmo dicendo una cosa per un’altra?
Abbiamo così tanti outfit, così tanti beni, dai più costosi a quelli falsamente poveri, e soffochiamo nella nostra avidità; non riusciamo neppure più ad avere paura perché ormai siamo incapaci di percepire il Suo passo nel giardino (Gen 3, 10c).
Denudiamo il nostro corpo fino a volerlo esporre con i suoi dettagli, con i suoi interni. La nostra coazione forzosa a essere sempre al top è come un velo gettato sulla nostra pelle per assicurarci un pudore secolarizzato. Tentiamo, esponendo la nostra nudità, di proteggere in qualche modo la mente dagli stati interiori del corpo, quelli che costituiscono e fluiscono nella vita dell’anima ferita, mentre vaghiamo nel cammino di ogni giorno senza renderci conto che dentro di noi continua a riecheggiare l’antica domanda: Adamo, dove sei?
Da qualche parte nella nostra anima cristiana si è aperta una crepa profonda che non vogliamo affrontare: follia, forse un sano odio, un pezzo di eresia, chissà…
La nostra fragile religiosità spesso dipende dal fatto che non guardiamo noi stessi troppo da vicino, sono pochi a desiderare di conoscere veramente se stessi e un numero ancora minore di noi ha la volontà di cimentarsi e su questa costatazione giocano e contano quelli che oggi hanno in pugno la Chiesa.
Purtroppo in questo nostro tempo strano, a differenza del viandante della miniatura, troviamo in quella locanda chi è sollecito a spogliarci se chiediamo la Fede perché la chiesa è ridotta a un luogo di svago per dissennatori, il cui bacio consuma l’anima dei malcapitati.
Che dire?
Tragica situazione la nostra se accettassimo dalla chiesa qualcosa di diverso dalla Fede che offre la vita eterna![37]
L’uomo della miniatura non indossa la veste offerta dall’angelo, non ne comprende il valore e ci si siede sopra inconsapevole perché solo la Chiesa potrà insegnargli il significato di essere in albis, la via della nudità che si deve ripercorrere con il Battesimo, quel filamento che sostiene il cammino nel quale ciascuno di noi, nudo può raggiungere Cristo nudo.
Nella sua Passione e Morte, Cristo non ha considerato un privilegio la sua uguaglianza con Dio (Phil 2, 6) e lo costatiamo nell’orto degli ulivi, nel sinedrio, nel pretorio, sul Golgota.
Ha affrontato la nudità/inermità ed è risorto nudo (Jo 20, 6-7).
La nudità del Cristo Risorto è trasparenza, innocenza recuperata, vittoria definitiva sul peccato originale, ripristino dell’immagine e somiglianza con Dio.
Il nostro attuale modo di vivere la nudità è frutto di una tristezza nata dal crollo dell’illusione di poter diventare come Dio.
E’ una nudità che non contiene santità, ma è una porta verso la disperazione, il collasso morale e il peccato, mentre, invece, la nudità nella storia cristiana, come si è accennato, fu per alcuni un filamento concreto e non solo metaforico in cui leggere l'inconoscibile che si rivela assumendo i condizionamenti dello spazio-tempo.
Accettare il limite del corpo nudo, il condensato decaduto che è la nostra consistenza mortale, la nostra inermità, è accogliere le leggi necessarie che pongono limiti all'assoluto che è divenuto precluso all’uomo a causa del peccato, dove apparenze anche perfette non sono mai interamente adeguate al loro oggetto.
Il nostro corpo mortale è nudo, ma è in quella nudità/inermità che forse - solo forse - il filo nudo di Dio attraversa ancora il nostro mondo. Vinciamo la tentazione di ricoprirlo con sicurezze effimere, di qualunque natura possano essere, dalle ideologie inclusive più avanzate alle regole più tradizionaliste con cui ci vogliamo proteggere.
Attendiamo, invece, e invochiamo, la salvezza del Signore e… con inesauribile pazienza.
Siano di conforto le parole dell’Apostolo Pietro: mille anni sono come un giorno solo (2Piet 3, 8c).
Gesù si domandava se il Figlio dell'uomo al suo ritorno, avrebbe trovato ancora la Fede sopra la terra (Lc 18, 8). Non è dato a noi saperlo, mentre ogni nostro respiro ci ricorda il richiamo paterno di Dio: Adamo dove sei?
La storia del Codex Purpureus Rossanensis è assai evocativa: un testo del Vangelo rimasto disattivato per circa mille anni, nessuno ne ricordava l’esistenza né andava alla sua ricerca.
In questa nostra epoca è una splendida metafora di quanto sta succedendo alla Fede in Cristo. Vissuta come un’eredità scomoda che in ogni modo si cerca di relegare in un armadio impolverato di una chiesa paralizzata da uno stroke metafisico e sulfureo, depotenziata con i trucchi più bizzarri mescolando le anime in un’ambigua melma mondana.
La nudità è propria di ogni corpo, a maggior ragione della Chiesa, che è il corpo di Cristo. Oggi è spogliata, denudata, come accadde già al Redentore, perché anch’essa impari l’obbedienza da ciò che patisce e non consideri nulla come un tesoro scontato.
Anche adesso, come fu per Gesù, sono gli uomini del potere religioso e secolare a scagliarsi conto di lei; ne irridono l’aspetto, ne deridono i riti, ne sbriciolano la dottrina.
Mi han trovato le guardie che perlustrano la città;
mi han percosso, mi hanno ferito,
mi han tolto il mantello
le guardie delle mura.
Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme,
se trovate il mio diletto,
che cosa gli racconterete?
Che sono malata d'amore! (Cant 5, 7)[38]
Non pochi cristiani videro nel denudamento di Cristo la spogliazione della Chiesa. E’ il nostro tempo e non possiamo limitarci a essere osservatori passivi.
Denudare la Chiesa è come denudare Cristo.
Ci faremo sopraffare dalla paura, dal conformismo (cfr. Mt 26, 56b)?
Fuggiremo via nudi come il giovane del Vangelo (Mc 14, 52), cioè lasceremo la veste battesimale della Fede?
Quando il Vangelo era realtà condivisa, Gerolamo e tanti altri scelsero di lanciarsi nudi contro il nemico nudo e così seguire Cristo (cfr. Mt 19, 21c).
Il nostro mondo è mutato. Per noi la nudità è intinta nella gogna mediatica sostenuta da non pochi pastori… che tentano di soffocare la Fede rendendola ambigua e liquida.
Se confessiamo la Fede, siamo denudati della liturgia, della dottrina, dei simboli che erano/rappresentavano la nostra forza, o così credevamo.
Assumere un onere di tale portata implica una fermezza ben maggiore di quella che ebbe Benedetto nel lanciarsi nudo tra i rovi o quella del Poverello di Assisi che non trattenne sul corpo nessun indumento pur di liberarsi da tutto ciò che non era Dio.
Il nostro orizzonte è la nudità estrema. La Confessio Fidei in un’epoca di ira coincide con l’ “essere spogliati e denudati di ogni cosa” e seguire nudo, il nudo Crocefisso e la nuda croce.[39]
rogo boni lectores ut oretis pro clusino scriptore
[1] Se non possiedi sei già sollevato da un gran peso, segui nudo il Cristo nudo. È un impegno gravoso, enorme, difficile, ma grandi sono anche le ricompense lettera al monaco Rustico 125, 20
[2] che voi riguardo alla vita passata vi spogliate del vecchio uomo E vi rivestiate dell'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia, e nella vera santità. (Eph 4, 22a;24).
[3] Ne conosciamo la vita attraverso l’opera di Sofronio di Gerusalemme (Patrologia Latina t. CXXIII, col. 671), è citata negli atti del secondo concilio di Nicea come prova per il culto delle immagini. Cfr, Benedictins du Paris, Vies des Saints, Letouzey at Ané, 1946, t, IV pag. 36.
[4] Gregorio sostiene l’ipotesi di due creazioni. Cfr. Gregorio di Nissa, L'uomo, introduzione, traduzione e note a cura di Bruno Salmona, Roma, Citta nuova, 2000. Interessante: Giovanni Mandolino, Come un indovinello» : doppia creazione e immagine di Dio nel De opificio hominis di Gregorio di Nissa, Brescia, Morcelliana 2018, pp. 416-434 in: Adamantius : annuario di letteratura cristiana antica e di studi giudeo ellenistici, Brescia, Morcelliana (24) 2018.
[5] Aforisma, massima.
[6] Per una panoramica storica cfr. Nudus Nudum Christum Sequi and Parallel Formulas in the Twelfth Century in Continuity and Discontinuity in Church History. Essays Presented to George Huntston Williams on the Occasion of his 65th Birthday, ed. FF. Church and T. George, Leiden 1979, pp. 83-91. La formula trovò un’ulteriore diffusione con l’Imitazione di Cristo che in qualche modo ebbe un effetto di rilancio nel XV sec. cf Imitazione di Cristo. Libro III, cap. 37, 5.
[7] A Rossano Calabro fino al 1462 si leggeva il Vangelo in greco durante la liturgia. Non si dimentichi che per il resto dell’Europa si continuò a inserire il testo greco del Credo nel Messale Romano (a volte senza il Filioque come è visibile in pontificali fino all’XI sec.)
[8] Dal 2013 abbiamo ascoltato nelle sedi più disparate accuse sempre più veementi contro i ‘farisei’ (Cfr. ad es. il resoconto del Portale dell’ebraismo italiano). E’ stato necessario un intervento pacato del Rabbino capo di Roma per contenere le reprimende contro i farisei (il bisogno persecutorio ha trovato un nuovo sfogo inventando gli indietristi). Cfr. l'intervista del 2018 al rabbino sul Corriere della Sera riportata dall’Osservatorio Antisemitismo del 21.01.2018: Gli ho chiesto di non citare più i farisei come paradigma negativo, visto che l’ebraismo rabbinico deriva da loro; e l’ha fatto. Gli ho chiesto di non cadere nel marcionismo, e mi pare ci stia attento». Cos’è il marcionismo? «L’idea — cara all’eretico Marcione e tuttora diffusa tra i laici che di religione sanno poco, come Eugenio Scalfari — che esista un Dio dell’Antico Testamento, severo e vendicativo, e un Dio del Nuovo, buono e amorevole. Ma Dio è uno solo. Ed è insieme il Dio dell’amore e il Dio della giustizia. Il Dio che perdona, e il Dio degli eserciti».
[9] Tob 12, 17-20 L'angelo disse loro: "Non temete; la pace sia con voi. Benedite Dio e cantate le sue lodi. Quando ero con voi, c’ero per la volontà di Dio: beneditelo e a lui cantate inni. A voi sembrava di vedermi mangiare e bere con voi, ma io mi nutrivo di un cibo invisibile che l’uomo non può vedere. Ora è tempo che torni a Colui che mi ha mandato e voi benedite il Signore e narrate tuttte le sue meraviglie.
[10] La rappresentazione della nudità di Cristo è un capitolo dell’arte di grande interesse. Tra i casi più espressivi si può citare il Maestro di Jelsi (XIV sec.) , gli affreschi di S. Maria della Pietà a Lauro (AV) (XIV sec.); le opere di Ludwig Krug, l’uomo dei dolori 1508, Maarten van Heemskerck, l’uomo dei dolori, 1582. Molto attenti alla ricerca anatomica del rinascimento furono Michelangelo e Donatello (dove troviamo un Cristo perfetto e non circonciso). Un lavoro pionieristico fu quello di Leo Steinberg, La sessualità di Cristo nell’arte rinascimentale e il suo oblio nell’età moderna, Il Saggiatore, Milano, 1986; uno studio critico di questa tesi in Bynum, Caroline Walker. The Body of Christ in the Later Middle Ages: A Reply to Leo Steinberg. Renaissance Quarterly, vol. 39, no. 3, 1986, pp. 399–439. Interessanti anche: Smith, Susan L. The Bride Stripped Bare: A Rare Type of the Disrobing of Christ, Gesta, vol. 34, no. 2, 1995, pp. 126–46 e The Sexuality of Christ in Renaissance Art and in Modern Oblivion. October, vol. 25, 1983, pp. 1–222.
[11] Gerolamo nella Vulgata traduce spoliaverunt che in latino ha il senso del ‘depredare’. Spogliare qualcuno è renderlo inerme, defraudarlo di un’intimità che dovrebbe essere inaccessibile. E’ il risultato della tentazione del demonio priva l’uomo dell’intimità vitale con Dio.
[12] Di notevole interesse l’esegesi di Agostino su questo passo. Cfr. Agostino, Esposizione sui salmi (n° 68): Per quanto aneliamo ad essere uniti con Cristo, tuttavia noi rifuggiamo dal morire; e se volentieri (o meglio con rassegnazione) ci sottoponiamo alla morte, è perché non ci è data altra via per unirci a Cristo. Se potessimo giungere a Cristo, cioè alla vita eterna, in un'altra maniera, chi vorrebbe morire? […] Afferma cioè che ci è stata preparata un'immortalità, della quale dovremo rivestirci alla fine, quando saremo risorti dai morti. Tuttavia, non può fare a meno di scrivere: Noi non vorremmo essere spogliati, ma solo rivestiti, e che quanto è in noi mortale fosse assorbito dalla vita. Se fosse possibile, dice in sostanza, noi vorremmo divenire immortali ricevendo immediatamente l'immortalità cosicché ci trasformi prendendoci come siamo ora. […] È vero dunque che [attraverso la morte] si passa da una condizione peggiore ad una migliore; tuttavia il passaggio è piuttosto amaro e contiene del fiele (quello che i giudei diedero al Signore durante la passione) e ha qualcosa di repellente che dobbiamo sopportare (ripulsa che troviamo ben rappresentata nell'aceto con cui alcuni dissetarono il Signore). […] Animati da questo maggior timore, disprezzeremo le paure più piccole; e per l'anelito verso l'eternità che in noi deve essere più grande, sentiremo disgusto per tutte le cose temporali. […] Gridiamo dunque per essere liberati: per evitare di consentire, magari perché oppressi dalle tribolazioni, all'iniquità, e per non essere da essa irreparabilmente assorbiti. Salvami, o Dio, perché le acque sono entrate sino all'anima mia.
[13] Phil 2, 7-8a spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso.
[14] dal latino pudor -oris, derivato di pudere ‘sentir vergogna’.
[15] Qui abbiamo il senso dell’amare e servire Dio: Per qual fine Dio ci ha creati? Dio ci ha creato per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita, e per goderlo poi nell'altra in paradiso. (Catechismo di Pio X).
[16] Si rimane pensosi ricordando queste parole: Essendo quindi quest'uomo la via della Chiesa, via della quotidiana sua vita ed esperienza, della sua missione e fatica, la Chiesa del nostro tempo deve essere, in modo sempre nuovo, consapevole della di lui «situazione». Deve cioè essere consapevole delle sue possibilità, che prendono sempre nuovo orientamento e così si manifestano; la Chiesa deve, nello stesso tempo, essere consapevole delle minacce che si presentano all'uomo. Deve essere consapevole, altresì, di tutto ciò che sembra essere contrario allo sforzo perché «la vita umana divenga sempre più umana», perché tutto ciò che compone questa vita risponda alla vera dignità dell'uomo. In una parola, dev'essere consapevole di tutto ciò che è contrario a quel processo. (Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, 14 del 04.03.1979. Trasformate da ultimo in uno slogan: l’uomo è anche la via di tutte le religioni, dove la dimensione trascendente è ormai evaporata. Cfr. Lettura della dichiarazione finale e conclusione del congresso presso il "palazzo della pace e della riconciliazione" "Palazzo dell'Indipendenza" (Nur-Sultan), Giovedì, 15 settembre 2022
[17]Si veda l’imprescindibile studio di Paul Fussell, La grande guerra e la memoria moderna, Nuova ed. Bologna, Il mulino, 2000.
[18] Nel caso in esame s’intende concupiscenza come desiderio smodato, sebbene profondamente radicato nell’umanità. Il giudizio negativo implicito in Gregorio Magno vale sia per coniugati sia per celibi.
[19] Gregorio Magno dirà nudi cum nudo luctari debemus e questa massima rimarrà come filo rosso per tutta l’epoca cristiana (Gregorio Magno, Omelie sul vangelo, 32,2).
[20]Quella specifica caratteristica, spirituale, intellettuale, morale ecc., stigma di Adamo, che manifesta in ciascun uomo l’aspirazione all’onnipotenza.
[21] Anche se nella Vita Secunda, Tommaso da Celano dirà che la gente vide che portava il cilicio (che non tolse): Cel., Vita Secunda, VII, 22; FF 597.
[22] Tommaso da Celano, Vita prima, VI, 15; FF 344/5. Bonaventura scriverà: depose tutti quanti i vestiti, al punto che getto` via anche le mutande e, come ebbro di spirito, non temette di denudarsi totalmente davanti ai presenti, per amore di Colui che per noi pendette nudo sulla croce. [Legenda minor, lezione VII; FF 1336. M 2,4] Così già nella legenda maior, cap. II; FF 1043. Per la massima: nudo contro il nemico nudo cfr n. 12 supra.
[23] Leggenda dei Tre Compagni, 20; FF 1419.
[24] Si veda il contenuto dell’enciclica Fratelli Tutti, progetto ideologico per sostituire la ‘fratellanza’ universale fondata sull’umanità, alla fraternità fondata sul riconoscimento della paternità di Dio. Interessanti nel contesto la lettura parziale e irrispettosa dell’esperienza del poverello di Assisi (cfr. Fonti F. 1173-4). Anche Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune (04.02.19). Non senza ragioni è stato sospettato di veicolare una visione massonica più che cristiana.
[25] Un’omelia: un esempio tra i numerosissimi.
[26] I testi citati sono rintracciabili in: Tommaso da Celano, Vita Secunda, LXXXII, 116-7; FF 703. Bonaventura da Bagnoregio, Legenda Maior, V; FF 1091.
[27] Tommaso da Celano, Ib. Ecco, questa più grande è tua moglie; questi quattro, due sono i figli e due le tue figlie; gli altri due sono il servo e la domestica, necessari al servizio. Fa presto, occorre vestirli tutti, perché muoiono dal freddo. Se poi questa molteplice preoccupazione ti è di peso, servi con diligenza unicamente il Signore.
[28] Anche in questo caso si tratta di concupiscenza sessuale.
[29] Assai efficace il fascinoso film di Liliana Cavani del 1989 sul Poverello di Assisi che coglie forse il retro pensiero di Bonaventura (dal minuto 53. 37 al minuto 54.59).
[30] Celebre è il caso di Aelredo di Rielvaux che si immergeva interamente nell’acqua ghiacciata e così estingueva in sé il fuoco di ogni specie di vizio (Walter Daniel, Vita di Aelredo di Rielvaux, Milano, Jaca Book 2012, pag. 59. Come si può osservare non c’è una focalizzazione esclusiva sulla concupiscenza ‘sessuale’.
[31] Un giorno, mentre pregava in Santa Maria della Porziuncola, udì in spirito una voce: "Se avrai fede quanto un granello di senapa, dirai al monte che si sposti ed esso si muoverà ". "Signore, rispose il Santo, qual è il monte, che io vorrei trasferire?". E la voce di nuovo: "Il monte è la tua tentazione ". "O Signore, rispose il Santo in lacrime avvenga a me, come hai detto". Subito sparì ogni tentazione e si sentì libero e del tutto sereno nel più profondo del cuore (Fonti F. 702).
[32] Si veda ad esempio il film Shame, di Steve McQueen; sceneggiatura di Steve McQueen, Abi Morgan; prodotto da Iain Canning, Emile Sherman; Italia, Rai , Bim Distribuzione, c2012, [2011]. L’abuso del sesso è veicolo d'espressione delle pulsioni più disordinate dell'animo umano. Quando la condizione umana è così tormentosa, diventa una trappola mentale, il corpo con i suoi sintomi può essere la chiave per uscirne.
[33] Lo schema sussistente è la ripetizione della violenza ricevuta e mentalmente non riassorbibile.
[34] (Il Poverello) mentre era ancora mondano, un giorno incontrò un lebbroso: fece violenza a se stesso, gli si avvicinò e lo baciò. Tommaso da Celano, Vita prima, FF 348.
[35] La benedizione prescritta Malbish arumin, Benedetto sei tu, Signore nostro D-o , Re dell'universo, che vesti gli ignudi
[36] Stephen Langton, arcivescovo di Canterbury fece la divisione capitoli intorno al 1226; il filologo Robert Estienne completò nel 1555 la numerazione in versetti di tutta la Bibbia, già iniziata nel 1551 con il Nuovo Testamento. Queste divisioni furono accolte come forma standard per individuare i versetti della Scrittura a livello universale.
[37] Si vis habére vitam ætérnam, serva mandata. Diliges Dóminum Deum tuum ex toto corde tuo, et ex tota anima tua, et ex tota mente tua, et próximum tuum sicut te ipsum. In his duóbus mandatis tota Lex pendet, et Prophétæ. Fides autem est, ut unum Deum in Trinitate, et Trinitátem in unitáte veneréris, neque confundéndo persónas, neque substántiam separando. Alia est enim persóna Patris, ália Filii, ália Spíritus Sancti: sed horum trium una est substántia, et nónnisi una Divínitas. (Se vuoi avere la vita eterna, osserva i comandamenti: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso. Questi due comandamenti contengono tutta la Legge e i Profeti. La fede consite nel venerare Dio nella Trinità e la Trinità nell’unità, non confondendo le persone e non separando la sostanza. Una è la persona del Padre, un’altra quella del Figlio e un’altra ancora quella dello Spirito Santo, ma una sola è la sostanza e una sola la divinità di queste tre persone). Ordo Baptismi Adultorum, Pii Papæ XII, Editio Nona 1952
[38] Era interpretazione condivisa che questi versetti fossero da applicare alla Chiesa oltraggiata da ‘pastori’ infetti di eresia. Specifiche sono presenti, ad esempio, anche in varie edizioni della Biblia Pauperorum.
[39] Jesu, qui ante crucem vestibus expoliari et nudari voluisti, fac me […] quatenus nudum crucifixum et nudam crucem nudus sequar, in Ludolphus de Saxonia, Vita Jesu Christi ex evangelio et approbatis ab ecclesia catholica doctoribus sedule collecta, Ed. novissima / curante L.M. Rigollot, Parisiis, apud Victorem Palme ; Romae : libreria S. Congreg. de propaganda fide, 1870, Pars secunda, 3, pag. 566. Cfr. anche Idem, Vita del N. S. Gesu Cristo ricavata dai Vangeli e commentata sulla scorta dei SS. Padri, Parma, Tip. Fiaccadori, 1872, pag. 294 con una traduzione in loco un po’ addolcita.
Ludolfo di Sassonia (1295-1377) fu domenicano e poi certosino. Scrisse la Vita Christi (1374) molto meditata dai grandi Santi dei secoli successivi.