I certosini sono schivi e amano non lasciare traccia di sé, esito naturale di una vita la cui ebbrezza corre sospesa tra pane e solitudine. Augustin Guillerand[1] fu tra quei pochi le cui parole hanno bucato il silenzio e chi avvicina i suoi scritti rimane colpito dalla serenità e modernità del suo vivere la Fede.
Alcune sue riflessioni sulla preghiera approfondiscono l’intreccio tra Fede e preghiera in un’esperienza come la sua segnata da non pochi dei demoni che travagliano l’uomo contemporaneo.
Bisogna incessantemente pregare per custodire noi stessi […] tutto per noi è diventato ostacolo e pericolo da quando abbiamo rigettato la Luce che illumina il cammino: umbra mortis (Lc 1,79)[2]. […] siamo un paese invaso: è necessario liberarci, gettare il nemico fuori, distoglierci da lui e ritornare verso Dio. Bisogna farlo … con facoltà che sono dissociate, con una vita diminuita[3].
Come alcune grandi personalità del XX secolo anche dom Guillerand ebbe in dono la capacità di rendere universale la propria esperienza; era un autentico pedagogo, ma di una semplicità priva di protagonismo.
In un certosino la preghiera è uno strumento di lavoro, più che un fine, perché il senso della sua vita è camminare in una (relativa) solitudine verso Dio. Una vita intera trascorsa in solitudine offre talvolta come dono anticipato alcuni attimi di luce morbida simili a quelli che contrastano le ombre in una basilica antica e pare, allora, di scoprire per un attimo, nello sguardo di Dio, la propria unicità di creatura, liberi dall’individualità che ripiega su se stessi.
La solitudine - nella sua più nuda semplicità - diventa così la realtà cosmica da decifrare: una mappa di Dio per riconnettere la nostra anima al suo Creatore.
Esiste tra Creatore e creato/creatura una complementarietà, ma anche una reciproca incompatibilità dovuta alla caduta di Adamo e, tuttavia, queste due dimensioni trovano la possibilità di armonizzarsi nella preghiera.
E’ assai difficile approdarvi però, avrebbe commentato dom Augustin, se non si ha il coraggio in primo luogo di prendere sul serio e comprendere quella cosa terribile che si chiama peccato nella forma che ha acquisito nel nostro tempo: lo sgretolamento dell’immagine di Dio nella coscienza dell’uomo!
E’ necessario, aveva scritto dom Guillerand, chiamare questa esperienza con il nome che le compete: orrore!
Prendendo atto, allo stesso tempo, che è purtroppo diventato il pane quotidiano della maggior parte degli esseri umani. Sarebbe il primo passo indispensabile per accedere alla preghiera, che è colloquio con Dio, elemento necessario all’equilibrio della vita, al pari del cibo e del sonno.
Molti santi riferiscono come la visione del peccato sia una delle esperienze più insostenibili per l’uomo, il quale è in grado di compiere il peccato, ma non ha la forza di osservarlo da fuori e per grazia non lo guarda con lo sguardo di Dio.
Forse questa è anche la ragione per cui l’uomo ha perso la capacità di vedere Dio: Non potrai vedere la mia faccia; perché non vivrà uomo dopo avermi veduto (Es 33, 20).
L’uomo che ha smarrito Dio è privo della capacità di relazionarsi con Lui e cerca, non senza sforzo, di pregarLo. Dom Augustin era immerso nella tradizione cristiana della preghiera, sia comunitaria sia personale, come l’aria che respirava.
In primo luogo l’Opus Dei, l’Ufficio Divino; parte preponderante nella vita certosina; insieme di testi tratti dalla Sacra Scrittura che, attraverso il canto o la recita vocale, aiuta l’uomo a ritrovare se stesso e la realtà del creato con le parole che Dio gli offre nella Scrittura per conoscersi.
Si potrebbe dire: nei salmi l’uomo parla a Dio come un bambino rapito nel rapporto con la madre è proteso ai suoi messaggi talvolta enigmatici che, giorno dopo giorno, ora dopo ora, placano e contengono l’angoscia, il terrore, la passione, la bontà e (perché no?) anche l’eccitazione.
A differenza di quanto accadde all’inizio del cristianesimo, oggi la vita cristiana si è conformata alla scansione secolare del tempo. Per un qualunque cristiano è assai improbabile partecipare con regolarità a un coro liturgico, com’era invece nella prassi fin dai tempi degli Apostoli (Ac 3, 1).
Potremmo, però, sempre entrare con semplicità nella nostra camera e, chiusa la porta, pregare il Padre (Mt 6, 6a) come Daniele che aperte le finestre della sua camera, che guardavano verso Gerusalemme, tre volte al giorno piegate le sue ginocchia faceva adorazione, e rendeva grazie al suo Dio (Dn 6, 10).
Leggere alcuni versetti della Sacra Scrittura con un tone di voce udibile al nostro orecchio basta per cogliere – a volte proprio in uno solo di quelli – come un’eco di una gioia leggera e pressoché dimenticata che accantona tutte le noie che ci possono essere inflitte dalle circostanze (e dalle persone) della nostra vita. E ci si trova improvvisamente dinanzi a quelle poche parole con un sentimento nuovo. Ci pare di intenderle come fossimo giunti lì per primi; di esserne penetrati in tutti i nostri muscoli scalpitanti. Ci si trova quasi a trattenere il respiro e il battito delle ciglia, per non turbare o far svanire il miracolo di parole improvvisamente isolate e spuntate qua e là nel nostro cuore come squilli improvvisi di colori e di luci. Finestre che si sono accese subito nella notte in cui eravamo e di cui, forse, neppure eravamo consapevoli.
In questa prospettiva, quasi involontariamente, siamo portati a ringraziare prima di pensare, un atteggiamento profondamente espressivo di ciò che insegna la Scrittura: faremo e ascolteremo (Ex 24, 7b).
E’ l’atteggiamento del pio ebreo che ogni mattina, appena sveglio, recita Modeh Ani[4], "rendo grazie". Volutamente la saggezza dei Maestri ha insegnato a invertire il normale ordine delle parole: Modeh Ani, non Ani Modeh , così che in ebraico il "grazie" venga prima dell'"io" come a sottolineare che l'istinto quasi universale a rendere grazie è uno dei segnali di trascendenza nella condizione umana, un indizio di qualcosa di profondamente spirituale nella profondità dell’uomo.
Inoltre ringraziare fa bene al corpo e all'anima perché più celebriamo la Bontà, più scopriamo che è degna di essere celebrata.
Oh Bonitas, sembra fosse l’esclamazione abituale di san Bruno, fondatore dei certosini.
Questo non è né semplice, né corrisponde alla logica della nostra natura decaduta. Siamo geneticamente predisposti a prestare più attenzione al male che al bene, assai attenti a potenziali minacce e pericoli.
Ci vuole un’attenzione focalizzata per diventare consapevoli di quanto dobbiamo essere grati!
Il rendere grazie è probabilmente l’unica logica sottostante all’Opus Dei, la sua ragione d’essere.
La cornice monastica nella quale Dom Augustin condusse la sua vita implicava parecchie ore del giorno e della notte dedicate alla preghiera comune, ma la sua personalità ferita lo indusse a frequentare molto anche la preghiera personale che, secondo un insegnamento antico poi confluito nella Regola di Benedetto, deve essere: breve e pura (Regula Benediciti 20) […] preghi, non a voce alta, ma con lacrime e con la concentrazione del cuore (RB 52, 4b).
Nel capitolo 20 della Regola, Benedetto presenta la preghiera personale nello scrigno della riverenza, virtù propria a coloro che si occupano delle cose di Dio.
La sobrietà (non in multiloquio dice la Regola) e la brevità sono le qualità su cui insiste Benedetto. In poche righe, che paiono tagliate con una lama di luce, il termine brevis (per la preghiera personale) e brevietur/brevissima (per la preghiera non liturgica fatta in comune) ricorre con un’insistenza ineludibile.
Benedetto precisa che la preghiera deve essere pura. Che cosa intenda con quest’aggettivo si può forse ricavare dall’altro luogo nella Regola (RB 55) dove è usato per descrivere come debba essere la cocolla: pelosa in inverno e leggera (pura) d’estate.
La preghiera pura/leggera dovrebbe essere libera dalle scorie dell’io/me e permettere all’anima di traspirare: Dio era nel mormorio di una brezza leggera (1Par (Re) 19, 12b) sperimenta il profeta Elia.
San Benedetto associa alla preghiera lacrime e attenzione intensa e commossa (RB 52, 4), eco forse dell’atteggiamento di Elia che si copre il volto di fronte a Dio. Dom Augustin ne offre una rilettura assai evocativa per la sensibilità contemporanea: Il luogo della preghiera è l'anima e Dio che vi abita. […] L'anima orante deve riprodurre questa solitudine, riempiendosi di Lui, rifiutando tutti gli altri. Il colloquio che ne deriva è il silenzio. Parola e silenzio non si oppongono o si escludono a vicenda. Ciò che si oppone al silenzio sono le parole, la molteplicità. Il silenzio dell'Essere si confonde con il silenzio del nulla. Il nulla non sa né parlare né tacere; sa solo agitare e nascondere, con movimenti superficiali, il vuoto che è in lui. Parole dalle labbra a cui non risponde alcun pensiero, atteggiamenti del corpo, fisionomie che non traducono alcuna realtà o che mentono correttamente: questo è il linguaggio del nulla. Ecco perché lo moltiplica. Servono molte parole per non dire nulla o per dire ciò che non si intende. L'essere ha bisogno di una sola parola per esprimersi completamente.[5]
La preghiera è un colloquio con Dio, ma ci rimane sfuggente perché la nostra insicurezza ci induce ad afferrare/impadronirci delle cose più che a contemplarle, rendendo difficile l’equilibrio tra il Creatore e la creatura. La preghiera sembra a tratti possedere la sostanza di un pensiero che è quasi impossibile fermare, pena la sua scomparsa; qualcosa che ci congiunge e ci permette di toccare in qualche modo parti di noi, e di vita, inaccessibili e difficilmente immaginabili.
Gli scritti di dom Guillerand nascono dal silenzio, e sono parole che si è spinti ad amare perché le opere che amiamo sono quelle che ci fanno pensare. Cerchiamo il silenzio da cui sono nate queste parole. Questo silenzio è la profondità dell'anima che le parole non possono tradurre perché sono più grandi di loro; è ciò che di immenso, eterno e divino c'è in noi.[6]
L’impegno faticoso che gli ha richiesto la tenuta di un equilibrio interiore fragile e esposto allo scacco, è sovrapponibile al processo di compunzione cioè di frantumazione dell’io, quel doloroso struggimento che è tentativo di colmare la distanza che si è creata tra noi e Dio.
La sofferenza è e sarà sempre sofferenza, cioè una violenza fatta alla nostra natura. […] la sofferenza è diventata un cammino... Essenzialmente e presa in sé, rimane un opposto, un nemico. Solo quando abbiamo ingaggiato una battaglia contro di essa, quando l'abbiamo superata, quando siamo stati più forti di essa sopportandola, essa diventa uno strumento e un servitore.[7]
L’essere umano è bloccato tra i due mondi in cui si muove: il peccato e la Grazia.
Il dinamismo propulsore di Dom Augustin fu l’abbandono totale alla Fede di cui il cammino della preghiera è l’espressione concreta del suo coinvolgimento emotivo e affettivo assai operoso.
La preghiera, quel profondo anelito di residenza in Dio!, non preserva dall’esperienza di essere esposti alla tentazione del nulla perché la nostra vita è un itinerario privo di dimora.
Già sant’Agostino si era interrogato sulla possibile dinamica del colloquio esistente tra Dio e Adamo prima del peccato: Iddio era forse solito in precedenza conversare con loro interiormente in modi esprimibili o piuttosto inesprimibili [con parole umane], come parla anche agli angeli illuminando le loro menti con la sua verità immutabile, in cui la loro intelligenza conosce simultaneamente tutto ciò che avviene non simultaneamente nel corso del tempo. (Genesi alla lettera, XI.33.43).
Nell’Eden, giardino delle delizie, Adamo forse comunicava con Dio senza parole, per semplice illuminazione e, se così fu, sarebbe spiegata la durezza, a volte l’aridità, ma anche la gioia che comporta la vita di preghiera che rincorre, consapevolmente o no, la traccia di quel legame antico – ma ancora radiante – sepolto nell’inconscio.
Indagare sui momenti in cui la preghiera è autentica e isolarli dal negativo e dal decomposto può essere una grazia, purché teniamo a mente il suggerimento della parabola della zizzania… (Mt 13, 24-30). S’incorrerebbe altrimenti in un sottile esercizio di potere per difenderci dall’esposizione al Mistero o semplicemente per salvaguardarci dal costatare che, spesso, la preghiera può rischiare di essere un colloquio con la nostra ombra essendo la nostra anima divenuta mobile come una marionetta.
Potremmo anche arrivare a illuderci di scacciare con la mano tutte le tentazioni dicendo a noi stessi che non abbiamo tempo di badarci, mentre in realtà siamo ancora lontani dalla consapevolezza di quante illusioni, equivoci e sfumature ridicole ci impediscono di avere il coraggio di affrontare lo sgomento di fronte alla maestà di Dio.
A Dio dobbiamo dare la disponibilità di ripristinare una comunione, non costruire una teologia o codificare qualcosa. Occorre solamente, e semplicemente, pregare; magari a cuore gonfio e chissà – per grazia - sul ciglio può presentarsi, sospesa, almeno una di quelle lacrime tremanti di commozione che auspicava san Benedetto.
E’ necessario essere presenti a Dio con cuore ardente e con la disponibilità ad aderirvi pienamente.
Lì si svolge l’ora della Grazia.
Così da quel nostro pregare, per chi lo sa ricavare, ne deriverà la più netta e schietta teologia; ma a quel momento sarà ancora rilevante?
Quando ci si aspetta qualcos’altro, al centro della preghiera abbiamo messo noi stessi, che si sia disposto ad ammetterlo oppure no. Ecco la ragione dell’insistenza degli antichi sulla brevitas e di fronte a tale realtà forse nessuna preghiera è più sicura del semplice Deo Gratias. L’unica espressione dove non compare il mio ‘io’, dove tutti siamo riuniti nel Creatore che diffonde[8] la sua Gloria attraverso il nostro essere.
L’impegno alla relazione con Dio è intangibile, ma non impossibile, implica una fedeltà di lunga durata: una vita intera! E’ insieme di sensazioni corporee e risonanze dell’anima che si possono attraversare solo con totale apertura e trasparenza e che, infine, aprono la porta sprangata dal peccato.
Non dimentichiamo: chi chiede, riceve e chi cerca, trova e a chi picchia, sarà aperto (Lc 11, 9).
Dom Guillerand ha compiuto un lungo giro per riordinare le facoltà dissociate che indicava nel suo scritto sulla preghiera, arrivando a considerare l’esistenza con una calma lungimiranza.
Alla vigilia della seconda guerra mondiale, sebbene condividesse lo sgomento per ciò che stava succedendo, così scriveva a un conoscente: tante preghiere, tante preghiere (ma preghiere vere, in cui non imponiamo al buon Dio il nostro modo di vedere le cose, ma iniziamo con l'accettare tutto ciò che Lui vuole e riconoscere che è incomparabilmente il meglio), che farebbero avanzare un po' di più le cose e ci darebbero molta più pace[9].
E in un’altra lettera: Non dobbiamo più avere paura di noi stessi o degli altri. Dobbiamo guardare in faccia la vita vera. È questo sguardo profondo e prolungato che ci darà Dio; perché Dio è al centro di tutto[10]. […] Le anime soffocano perché sono ristrette; e sono ristrette perché rimangono nei confini del loro piccolo ego. È naturale che in quella prigione manchi l'aria. Devono uscire. Noi siamo più grandi di noi stessi.
Siamo grandi come Dio, ma solo se entriamo in Lui[11].
Dom Augustin continuamente tesse e ritesse le corde della sua anima per sintonizzarle su Dio solo.
[…] Sulla superficie dell'anima ci sono, e ci saranno sempre, mille movimenti causati dalle circostanze. Siamo felici o tristi, malati o in salute, annoiati o soddisfatti, stanchi o riposati... ma nel profondo accettiamo tutto questo con coraggio; […] Questa è la pazienza. È la forza più grande di questo mondo. In molti casi, è l'unica vera forza. Ve lo auguro[12].
Attraverso le parole giunte fino a noi, emerge il ritratto del nostro certosino: un uomo per il quale la Fede non rappresentava una soluzione prêt-à-porter per i problemi della vita o un’identità facile da giocare nella precarietà che contraddistingue l’esistenza umana. Un uomo che aveva compreso, accettato e … amato la dimensione discreta della presenza di Dio, sempre presente nel nostro cuore, ma come Testimone silenzioso di tutto quello che passa nei nostri pensieri più riposti. Aveva intuito che lo sguardo di Dio nel pesare i peccati è il suo impegno a stare con l’uomo attraverso le esperienze più oscure possibili, i momenti più bui[13].
E in questo è il fondamento della perfetta letizia.
L’irriducibilità della propria fragilità aiutò dom Augustin a intuire l’importanza di aggirare la retorica della perfezione (psichica e/o morale) che produce un incantamento dell’immaginazione mentre, al contrario, occorre prendere noi stessi – così come siamo - e porci accanto al Signore (Ex. 25, 1-2) perché solo Dio può infondere nel cuore la santità che rende completo ogni uomo in Cristo Gesù (Col 1.28).
Per ripristinare quel dialogo misterioso che Dio aveva con Adamo, occorrono occhi vuoti di cose e fissi al Punto[14] e bisogna saper patire[15] la Fede perché, avrebbe detto il nostro certosino, la pazienza misura la distanza tra noi e Dio.
rogo boni lectores ut oretis pro clusino scriptore
[1] Nato nel 1877 in una famiglia contadina, fu ordinato prete nel 1900 e iniziò il ministero in parrocchia. Decenni più tardi alcuni parrocchiani tra i più anziani ne ricordavano ancora con devozione l’insegnamento. Qualche anno dopo l’arrivo in parrocchia un nipote, suo ospite per qualche giorno in canonica, morì in un incidente di bicicletta. Fu un trauma che segnò dom Guillerand per tutto il resto della sua esistenza. Nel 1916 entrò nella certosa svizzera della Valsainte; i primi anni misero a dura prova il suo equilibrio pischico, ma lentamente, con un esercizio di totale fiducia in Dio, riuscì a raggiungere un buon equilibrio; fu confessore delle monache certosine e, infine priore della certosa di Vedana (BL). Rimase un uomo segnato, soggetto a momenti di profonda suscettibilità e impressionabilità che affrontava con grande coraggio, saggezza e energia (intagliava grandi travi di legno per distendere i suoi nervi troppo tesi. A volte dopo il Mattutino, nel cuore della notte, lo si sentiva fare abluzioni con acqua fredda nel giardino della sua cella ai piedi delle Dolomiti innevate. Durante il giorno, camminava instancabilmente nel suo piccolo giardino, quando non scriveva (sempre in piedi!) o non pregava nello stallo della sua cella. Tutti questi mezzi erano necessari, ammetteva, per mantenere il suo equilibrio). Morì nel1945 alla Grande Chartreuse appena ripristinata.
[2] Guillerand Augustin, La preghiera – dinanzi a Dio, introduzione, traduzione e note di Giuseppe Gioia, Cinisello Balsamo, Paoline, 1991 pag. 19.
[3] Ib. pag. 21.
[4] Ecco la traduzione italiana dell’intera preghiera: Ti ringrazio, Re vivente ed Eterno, per avermi generosamente restituito la mia anima, grande è la Tua fedeltà.
[5] Dom Augustin Guillerand, Silence cartusien, préface et introductions par le Pére André Ravier, Correrie de la Grande Chartreuse, 1981 pag. 24.
[6] Dom Augustin Guillerand, Silence , op. cit, pag. 10
[7] Ibidem, pag. 24
[8] Bonum est diffusivum sui (S. Tommaso, Summa theologiae, I, q. 5 a. 4, ad 2)
[9] André Ravier, Dom Augustin Guillerand: prieur chartreux 1877-1945 - un maître spirituel de notre temps, Bruges, Desclée De Brouwer, 1965 pag. 75.
[10] Dom Augustin Guillerand, Silence , op. cit, pag. 6.
[11] Ibidem, pag, 8.
[12] Ibidem,pag. 28.
[13] Mt 5, 14. (Il Padre vostro celeste) fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti.
[14] ἐγὼ τὸ ἄλϕα καὶ τὸ ὦ, ό πρῶτος καὶ ὁ ἔσχατος, ἡ ἀρχὴ καὶ τὸ τέλος, Io sono l'alfa e l'omega, il primo e l'ultimo, il principio e la fine. Apoc 22, 13.
[15] È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli […] e lo fa per il nostro bene, allo scopo di renderci partecipi della sua santità. […] Perciò rinfrancate le mani cadenti e le ginocchia vacillanti. Heb 12, 7a; 10b; 12..