Il Chronicon Novalicense (Cronaca di Novalesa)[1] è un testo dell’XI secolo che narra gli inizi e i primi, gloriosi, secoli di vita dell’omonima abbazia fondata nel 726, il racconto si protrae fino a circa la metà del 1050 quando era ormai un piccolo monastero ripristinato dopo la dispersione da parte dei saraceni nel 910.
Per avventurarsi tra carte così antiche occorre la disponibilità a lasciarsi trasportare in un mondo lontanissimo dove realtà concreta e mistero s’intrecciavano costantemente.
Il nostro mondo odierno, quello quotidiano di ciascuno di noi, è invece un mondo senza Dio.
Ponendoci in ascolto di quelle lontane pergamene, la prima reazione potrebbe essere la consapevolezza di quanto il nostro sguardo sia sofferente e come sia difficoltoso riprendere contatto con alcuni aspetti della Fede ormai ringhiottiti dal nostro inconscio e che la chiesa, oggi, tenta di presentare come mostri da irretire e addomesticare con lusinghe sentimentali e incolori.
Anche gli antichi sono vissuti in periodi oscuri e terribili, ma i nostri tempi si caratterizzano per una turbolenza della psiche dovuta alla guerra che muoviamo contro Dio. Il Chronicon è come un’esplorazione in una parte di noi che la nostra cultura e il nostro cuore ha rifiutato, e oggi, con l’impegno militante della chiesa, cerca di oscurare e cancellare.
Il nostro tormento non ci consente più un approccio diretto ai misteri religiosi e quindi non dobbiamo dare per scontato che le parole di allora abbiano per noi necessariamente il medesimo significato, inducano la stessa risonanza interiore, attivino identiche analogie pur apparendo simili e ancora presenti nel nostro vocabolario.
Tutta la narrazione del Chronicon sarebbe da ripercorrere; indugiare sul primo libro ricco di elementi fantastici (si pensi solo al ruolo del monte Romulo/Rocciamelone) che forse siamo inclini a contrarre nel leggendario poiché non corrispondenti all’attuale idea di realtà, ma quanto si perde per la limitatezza del nostro mondo dominato da un sistema razionalista.
Sorvoliamo sui passaggi diventati celebri e fonte d'ispirazione per grandi opere, si pensi all’Adelchi in cui Manzoni trasse spunti per mettere in scena il famoso scontro tra Longobardi e Carlo Magno.
Prendiamo in mano invece il libro secondo dedicato alla vita monastica che si conduceva a Novalesa. In quell’epoca di transizione, l’impressione è di trovarsi di fronte a persone non dure, ma serie. Il monachesimo novalicense non pare toccato dalla riforma del contemporaneo Benedetto d’Aniane, pur rimanendo lo stile di vita contrassegnato da un rigore intelligente e sobrio.
La numerosa comunità monastica (sembra che a Novalesa si contassero circa 400 monaci) viveva in piccoli gruppi (decanie) presso le cappelle sparse sul territorio, non in un grande complesso conventuale.
I monaci si riunivano nella chiesa abbaziale per la preghiera e, nell’annesso refettorio, per i pasti.
Uno stile di vita dinamico, dunque, a misura d’uomo, che non sfociava nel rilassamento se, come racconta il Chronicon, l’attenzione dei monaci durante la preghiera era proverbiale e Novalesa è presentato come il primo monastero in Occidente in cui si faceva divieto formale di accesso alle donne; Berta, la moglie (amante?) di Carlo Magno morì sulla soglia che voleva violare…
Non da ultimo, Novalesa è, forse, anche il solo esempio di monastero in cui l’abate, in casa propria, era superiore al vescovo…
Sempre nel secondo libro sono collocate le imprese leggendarie di Valtario, eroe mitico dell’età carolingia cantato anche in altre saghe.
Questa scelta del Chronicon è un enigma; perché il cronista propone a modello questa figura a tre secoli di distanza?
In ‘epoca che si potrebbe definire ‘monastica’, l’esperienza del monaco/eroe Valtario sembra quasi ridimensionarla per la sua inefficacia per una generazione, come quella, massacrata dalle guerre.
La forza della violenza che si era impadronita di Valtario è imbrigliata solo in apparenza con l’entrata in monastero per espiare le proprie colpe. Il nostro eroe dovrà ancora compiere un cammino tortuoso per raggiungere la pacificazione. C’è un episodio didascalico nel Chronicon. L’abate chiede a Valtario di recuperare dai predoni del re Desiderio i beni rubati dai carri del monastero. L’intento è di metterne alla prova il cuore con un’esperienza che svelerà il suo reale percorso di espiazione. L’eventuale spoliazione delle vesti monacali è simbolo dell’esposizione alla propria violenza interna. Valtario ne è consapevole e sperimenta un oscuro tremore e rilancia: cosa fare se gli fossero state tolte anche le brache?
L’abate tace.
Valtario non supererà la prova perché incapace di accettare di essere denudato/umiliato dai predoni.
Il Chronicon è scritto dopo l’anno 1000 e la storia raccontata è collocata nel 700. I secoli trascorsi hanno visto esperienze orribili tra cui la fine della grandezza dell’abbazia. In questa situazione è una scelta coraggiosa e inusuale porre come paradigma novalicense un eroe/monaco come Valtario in un monastero, Novalesa, ormai ridotto a minuscola espressione.
A tre secoli di distanza dai fatti è meditazione pensosa lasciata come eredità: la via monastica alla salvezza è di poco conto se fondata su imprese guerresche o ascetiche, l’eroe/monaco deve riuscire a lambirle senza appoggiarsi sopra, essendo entrambe non esenti da una certa ambiguità.
Dovranno trascorrere ancora 150 anni prima che il Poverello di Assisi comprenda e viva nel suo corpo il denudamento di Cristo.
Una leggenda d’impressionante contemporaneità!
Nel vagabondare attraverso questo testo tra quei secoli lontani ci s’imbatte in una lettera famosa riportata nel IV libro ma anche in altri manoscritti autonomi.
Eldrado, l’abate più illustre nella storia dell’abbazia, interpella Floro di Lione, maestro della locale cattedrale e figura di spicco nel panorama culturale dell’epoca, per emendare il testo del salterio. Considerando l’arco di vita dei destinatari, la lettera potrebbe essere stata scritta probabilmente intorno all’850.
Il curatore moderno dell’edizione della Cronaca in una nota rileva che l’operazione dell’emendazione di testi è da inquadrare nel programma riformatore e unificatore di Carlo Magno.
C’è del vero in quest’osservazione, ma si consideri come il cronista insista sulla cura di Eldrado per il solo libro dei salmi tralasciando gli altri. Non dobbiamo dimenticare che il monastero novalicense era importante, ma non certo possedeva il peso di altre abbazie carolingie (si pensi a celebri realtà coeve come il monastero di Reichenau o l’abbazia di Lorsch). Non esiste traccia di un laboratorio di scrittura (scriptorium) significativo; possedeva molti codici (quando i monaci scapparono verso Torino sembra si portassero dietro 6666 volumi: che numero! Ogni generazione cristiana ha nel proprio DNA la fine dei tempi…).
Altro caso singolare per un monastero di un livello comunque elevato è la circostanza che negli elenchi dei volumi appartenuti all’abbazia non sono stati catalogati testi di autori classici, né si ricordano monaci illustri per impegno culturale e questo potrebbe spiegare il motivo per cui l’abate si rivolgesse direttamente a quello che allora si sarebbe potuto definire uno ‘specialista’, un tecnico della Bibbia.
Ci incrociamo infine con un interessante dettaglio: se il libro dei salmi era corrotto (fatto forse evidente e condiviso) è difficile immaginare che il resto della Bibbia fosse di qualità migliore. La richiesta dell’abate Eldrado, concentrata sulla correzione del testo dei salmi, parrebbe quindi connotarsi per un’esigenza in primo luogo spirituale. Un’attenzione non solo di critica testuale, ma di consapevolezza dell’importanza che quel particolare testo assumeva per uomini ferventi.
E’ però anche un muoversi elegante da parte di Eldrado. Si rivolge a Floro che aveva tenuto testa a personaggi importanti del processo politico carolingio di uniformità politico/religiosa quali Amalario e Giovanni Scoto Eriugena. Forse in questo modo Eldrado si collocava dentro la dinamica di riforma ma con un pizzico di anticonformismo. In mezzo alle non poche e infide difficoltà del tempo, Eldrado non si sottrae all’adesione politica al potente di turno, ma piega questa necessità a quella ben più rilevante di costituire la propria comunità intorno a un testo imprescindibile per la preghiera e strumento non secondario per l’apprendimento.
Mensa sana in corde sano…
Non a caso Floro nella sua risposta ne coglie subito la portata attestando il merito dell’abate Eldrado per la ricerca della norma della verità.
L’inizio della lettera è simpatico, quasi quasi sembra di vedere Floro mentre sbuffa… Quanto possono essere pesanti l’incuria degli scribi sonnacchiosi e la quotidiana pigrizia degli ignoranti!
Floro non si perde in chiacchiere cerimoniose e va subito al punto dichiarando la propria metodologia: si muoverà tenendo conto da un lato della traduzione dal testo ebraico del sacro interprete (san Gerolamo) e, dall’altro, di quella greca dei Settanta[2].
L’espressione “sacro interprete” stimola le associazioni, tuffi nella memoria dai quali talvolta sbucano gli elementi più impensati.
Gerolamo era un uomo rigoroso e libero. Convinto che la verità non fosse solo adesione a verità ritenute tali solo in virtù della loro antichità. La sua profonda sensibilità per il mistero non era pedissequa, ma era sostenuta da una grande intelligenza, una sensibilità alla cultura unita a uno sguardo ironico (si pensi al famoso sogno del cristiano/ciceroniano che appare un’autentica presa in giro dei bigotti come emergerà nella sua apologia contro Rufino).
La prospettiva in cui si muove, Gerolamo è ben chiarita nella lettera 57, dove dice Io, infatti, non solo ammetto, ma proclamo liberamente che nel tradurre i testi greci, a parte le Sacre Scritture, dove anche l'ordine delle parole è un mistero, non rendo la parola con la parola, ma il senso con il senso. Ho come maestro di questo procedimento Cicerone, che tradusse il Protagora di Platone, l'Economico di Senofonte e le due bellissime orazioni che Eschine e Demostene scrissero l'uno contro l'altro.
Perché come affermerà nella lettera a Pammacchio: E' assai difficile quando si segue il pensiero di un autore non allontanarsene mai; è arduo addirittura conservare nella traduzione tutta l'eleganza e la bellezza dell'originale [...]. Se traduco alla lettera, genero delle assurdità, se costretto dalla necessità, altero in qualche cosa l'ordine, lo stile, mi si dirà che manco al mio dovere d'interprete [...] perché se alcuno pretende che una lingua non perda nulla della sua grazia in una versione, traduca Omero letteralmente in latino, o meglio lo volga in prosa nella sua stessa lingua greca: si accorgerà subito d'aver dinanzi un mostriciattolo, e che il più eloquente dei poeti s'è trasformato in un uomo appena capace di parlare.
Considerando il suo carattere focoso, chissà quale lettera veemente avrebbe vergato se gli fosse capitato tra le mani il decreto dell’8 Aprile del 1546 con cui il Concilio di Trento stabilì che la sua Vulgata era da considerarsi quale unica versione latina giuridicamente autentica.
Povero Gerolamo che aveva combattuto[3] contro l’idea di una traduzione ispirata, rendendosi del tutto conto della ‘relatività’ della propria traduzione, come del dubbio che occorre sempre coltivare riguardo alla sicurezza dei testi da tradurre.
Figuriamoci porre su un piedistallo un testo che non poteva e doveva essere messo in discussione!
Quale insicurezza porta a questo tipo di bisogno definitorio e quali ipoteche determina nel futuro?
Quella decisione conciliare, infatti, fu una mina a lungo nascosta, destinata però a deflagrare nel tempo; e nel 1907 fu proprio un papa esaltato dai tradizionalisti (quello che sembra abbia detto di sé: la Chiesa sono io!) a ordinare di procedere a una revisione che diventò una pietra tombale[4] per la Vulgata di Gerolamo.
Sì perché, Gerolamo era conscio (fatto non così scontato al suo tempo) che non solo il testo sotto mano poteva essere corrotto per i motivi più diversi, ma anche i testi prototipo potevano esserlo a loro volta[5].
Il suo pensiero si collocava all’interno di un orizzonte –condiviso- di consapevolezza del Trascendente, di ricerca della Fede.
Agostino, Gerolamo e altri Padri avevano ben presente i limiti del testo biblico, la loro raffinata cultura classica avrebbe potuto inghiottirli ma riuscirono a fermarsi con umiltà di fronte al Mistero (come i pastori a Betlemme).
Con un atteggiamento che ricorda Esaù, noi invece abbiamo venduto la Fede, sublimandola in una spasmodica attenzione scientifica, nella praticità e nell’aggiornamento. Abbiamo prodotto un testo biblico forse perfetto che però risponde più alle esigenze transitorie del nostro vuoto interiore che a una vita spirituale e psichica sana.
In questa prospettiva è da intendere la triste parabola della cosiddetta NeoVulgata, un ibrido che cambia lettera e sostanza al testo di Gerolamo, anche quando vuole ‘riprodurlo’ e che tutti si sono affrettati a mettere sullo scaffale più alto della libreria, là dove ci sono i libri inutili.
Ricordo in anni lontani, in un antico convento, i frati che allora ancora in buon numero tentavano di cantare i salmi in quel nuovo latino; veri ‘martyres’ visti i tempi… Ho ancora negli occhi il loro scoraggiamento per l’impossibilità dell’impresa. Quella nuova traduzione brilla per l’assenza di un elemento essenziale per Gerolamo: conservare nella traduzione tutta l'eleganza e la bellezza dell'originale[6].
Ripercorrere l’opera di Gerolamo è molto istruttivo e rinfrescante perché ci pone a contatto con un cristiano che ha lottato tutta la vita per la fedeltà alla verità della Fede, coniugandola ad altrettanta libertà mentale, eleganza e rispetto del Mistero.
… ma è tempo di sospendere le divagazioni e tornare alla lettura del Chronicon e a un dettaglio appetitoso. Floro chiede all’abate di mantenere nella codice del salterio l’uso dei segni diacritici, nello specifico l’asterisco (Ж) per indicare ciò che nella versione dei Settanta è stato aggiunto dall’ebraico e l’obelo (⼇)[7] ad indicare le aggiunte peculiari dei Settanta rispetto al testo ebraico.
Floro dichiara di appoggiarsi per il suo lavoro alla celebre lettera (106) scritta da san Gerolamo a Sunnia e Fretula in cui si diffonde a commentare la traduzione dei salmi.
Il crinale su cui si muove è scivoloso perché la tradizione antica non ha accettato nell’uso liturgico la traduzione ebraica di Gerolamo, preferendo rimanere su un testo diffuso e ormai consolidato, ma che comunque, per le particolari condizioni di quel tempo, correva frequentemente il rischio della corruzione.
Mi sono soffermato su quest’aspetto così analitico perché asterischi e obeli fanno tornare alla mente il vivace scambio di lettere tra Agostino che rimprovera Gerolamo per aver omesso asterischi e obeli, ma che in realtà, è irritato per altro motivo come scrive nella lettera 71 (probabilmente datata al 403) A dir la verità io, personalmente, avrei preferito e preferirei che tu ci traducessi i libri canonici della sacra Scrittura dal testo greco della versione dei LXX. Se infatti la tua traduzione cominciasse ad esser letta con una certa frequenza in molte Chiese, succederebbe un fatto assai penoso: le Chiese greche si troverebbero a discordare da quelle latine; la cosa sarebbe tanto più penosa in quanto ora riesce facile convincere del suo errore chi avanza delle obiezioni col mostrargli la sacra Scrittura nel testo greco, cioè in una lingua quasi universalmente conosciuta. D'ora in poi invece, se uno incontrerà delle difficoltà per qualche espressione insolita nel testo tradotto dall'ebraico e lancerà l'accusa di falsità, rarissimamente o mai addirittura s'arriverà ad avere i testi originari ebraici con cui ci si possa difendere dall'obiezione.
Girolamo era un uomo ricoperto di calli infiammati…, bastava poco per fargli prendere la penna e ‘scrostare’ l’incauto interlocutore e, infatti, gli risponde nel 403 (lettera 75) mi domandi perché la mia prima traduzione dei libri canonici porta asterischi e obelischi, segnati davanti ad alcune parole, mentre poi ho pubblicato la seconda edizione priva di tali segni. Non ti offendere se ti dirò che mi dai l'impressione di non avere idee esatte su quel che vuoi sapere. […] Vuoi essere un lettore davvero fanatico dei Settanta? non leggere le parole precedute da asterisco, anzi raschiale dai rotoli per dar prova in tal modo che sei partigiano degli antichi. Se farai così, sarai costretto a condannare tutte le biblioteche ecclesiastiche, perché è assai difficile trovare uno o due libri che non portino quei segni!
Affermi […] " i testi tradotti dai Settanta, o erano oscuri o erano chiari. Se oscuri, bisogna credere che tu pure hai potuto sbagliare nel tradurli. Se chiari, è evidente che essi non poterono sbagliare".
Le dinamiche divertenti che emergono tra Agostino e Gerolamo dovrebbero far riflettere a lungo su quale ragione fondare un forte legame alla Tradizione…
Basti da ultimo un piccolo cammeo della Vulgata; è un'occasione di meditazione per chi - ‘novus e vetus ordo che differenza c’è? - confonde l’uniformità con l’unità, la paura dell’autorità con la Verità.
Gerolamo traduce nel libro del Deuteronomio il capitolo 26, 5 in questo modo: Et loqueris in conspectu Domini Dei tui: Syrus persequebatur patrem meum, qui descendit in Aegyptum;[8] tutte le Bibbie, compresa la NeoVulgata, riportano invece una lettura di senso diverso come la seguente pronuncerai queste parole davanti al Signore tuo Dio: Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto.
Non è illegittima, ma se ci soffermiamo sulla traduzione (e quindi sull’esegesi) di Gerolamo cogliamo una prospettiva che trascende il significato in fin dei conti scontato e ideologico dell’ebreo (e poi del cristiano) che –in teoria- deve tutto a Dio. La posta in gioco che evidenzia Gerolamo è di ben maggiore portata: l’elemento distintivo dell’essere ebreo è lo stigma della persecuzione, anche da parte dei propri fratelli perché il Syrus altri non è che Labano (e non Abramo come anche legge la NeoVulgata…).
Che dire? Non è forse Cristo il perfetto esempio di perseguitato, ebreo da ebrei? Per tacere di ciò che oggi Gli riserva la sua stessa chiesa!
Condividiamo con Floro lo spirito di Gerolamo senza idealizzarne la Vulgata. La polvere che la ricopre è il suo ultimo dono; attraverso quella patina potremmo intravedere che la Fede che ci siamo lasciati alle spalle ci attende nel futuro.
Come quei vecchi inginocchiatoi delle poche chiese scampate all’iconoclastia del Vaticano II, consumati dalle preghiere, dai gemiti, dalle lacrime, dai sospiri, dai timori e dai desideri di generazioni di cristiani, rendono più semplice la preghiera, così la Vulgata restituisce levità a questo tempo di spregiudicatezza, falsificazioni e apostasia della chiesa.
***
Ora mi congedo da te, mio indulgente lettore, che hai avuto tanta pazienza e tenacia nel seguirmi fin qui tra le pagine così vivide del Chronicon Novalicense.
A te rivolgo le medesime commoventi parole con le quali Floro volle terminare la sua missiva all’abate Eldrado: molte cose ti dico con fiducia perché non dubito della tua benevolenza. Prego per te e chiedo a tutti quelli che useranno questo libretto di innalzare preghiere a Gesù per i miei peccati, di modo che io, che per quanto ho potuto, ho faticato per tutti, meriti di essere aiutato dalle invocazioni e dalle preghiere di tutti.
[1] L’originale è un manoscritto su un rotulo di pergamena lungo quasi 12 metri. Oggi in edizione critica: Cronaca di Novalesa, a cura di Gian Carlo Alessio, Torino, Einaudi, 1982.
[2] Settanta: dai presunti settanta traduttori ebrei, ciascuno dei quali avrebbe prodotto un testo simile a quello degli altri. Per la prima volta traduce in greco il testo della Torah (Antico Testamento) per gli ebrei grecizzati in Egitto intorno al 150 a.C. Opera di valore diseguale cha va dalla assoluta fedeltà testuale (ad es, Cantico dei Cantici) ad una libertà totale che rende difficile il riconoscimento del testo originale (ad es. Giobbe, Proverbi, Daniele). Testo diffusissimo e ancora normativo per le chiese cristiane d’Oriente.
[3] Un luogo per tutti è il Prologo alla traduzione del Pentateuco (ripreso anche nel Contro Rufino) , Gerolamo dice con chiarezza: Alium est enim vatem, aliud esse interpretem; ibi spiritus, hic eruditio.
[4] E così fu per altre sue riforme, si pensi all’apparente ‘razionalizzazione’ del Breviario, ma con conseguenze disastrose.
[5] Gerolamo si rendeva conto della necessità del costante confronto con gli ebrei, atteggiamento riscontrabile anche nel più tardo san Tommaso d’Aquino che non si faceva scrupolo di rivolgersi ai Rabbini per comprendere passaggi biblici.
[6] Ho rivisitato di recente quel convento. La Primavera conciliare aveva lasciato sul terreno due o tre frati e, in un italiano noioso e altrettanto incomprensibile, dicevano la ‘liturgia delle ore’.
[7] Nella tarda antichità l’obelo (in greco ‘spiedo’) era una lineetta orizzontale – ai margini per contrassegnare versi non ritenuti autentici che tuttavia non si voleva senz’altro espungere. Nel Medioevo una lineetta con un punto sovrastante.
[8] La NeoVulgata traduce: et loqueris in conspectu Domini Dei tui: Syrus vagus erat pater meus et descendit in Aegyptum.