La chiesa è in fiamme, come l’antica città superba di cui racconta Virgilio nell’Eneide (III,2)[1]. In entrambe le città, la tracotanza, cioè l’aver voluto addomesticare la realtà divina rendendo friabile la Fede e cadente la Tradizione, ha prodotto capi protervi e i sempre nuovi focolai altro non sono che manifestazione di accecamento mentale; da una città che brucia non si può che tentare di sfuggire, anche se per secoli è stata il simbolo della Città di Dio.
Fuggire, addolorati, ma non affranti perché il corpo di Cristo, che è la Chiesa, non può bruciare.
Mentre si fugge e si cerca un aiuto, ci soccorrono ancora come un presagio del nuovo che ci attende, le parole del Poeta:
Su, dunque, diletto padre, salimi sul collo,
ti sosterrò con le spalle,
e il peso non mi sarà grave;
dovunque cadranno le sorti,
uno e comune sarà il pericolo,
una per ambedue la salvezza (Eneide II, 707-710)
In anni recenti un altro poeta, Giorgio Caproni (1912-1990), che molto rifletté su Enea commentava: Attraverso il suo Enea, Virgilio ha saputo darci dell’uomo (di noi) una rappresentazione che ancor oggi è quant’altre mai attuale. Dico d’un Enea meno arma che vir (meno eroe che uomo), il quale, scampato alla totale distruzione della sua città, cerca di portare in salvo, sulle spalle, una tradizione che cade da tutte le parti e non lo sostiene più, mentre per la mano ha un domani ancora incerto.
Non è proprio quello che si dovrebbe fare di questi tempi, terribili, in cui siamo flagellati da un ‘magistero autentico’ superbo, fuorviante, rovinoso e crudele?
Una crudeltà altrettanto grande, la seconda guerra mondiale, aveva portato Caproni a riflettere su Enea, scoprendone per caso una statua.
Prendo anch’io come guida le parole di Virgilio lasciandomi condurre in un luogo altro: Su, dunque, diletto padre, salimi sul collo.
Chissà se il mio lettore è disponibile a seguirmi in un’associazione mentale così ardita, perché non tentare?
Se seguiamo, con la mente nuda, il filo delle immagini che le parole producono non è così improbabile poter quasi sentire la voce di Mauro, o Placido o quella del misterioso monaco goto o del figlio dell’avvocato che reggeva la lucerna, insomma: la voce di un discepolo del grande Benedetto.
Su, dunque, diletto padre, salimi sul collo (En II, 707)!
Non sembra questa la domanda alla quale segue: Ascolta, figlio mio, le disposizioni (praecepta) del maestro (RB, Prologo 1a)
I praecepta, tra i cristiani, non sono ordini militareschi e ciechi, sono figli dell’ascolto e nascono nell’amore. Gli ordini calati dall’alto sono espressione di una cultura tanatologica in cui il potente di turno è diventato il capo, il re sole, che tutto può; e determina, lui solo, la sopravvivenza dell’altro, perché si può sopravvivere unicamente intingendo la propria potenza in quella del capo.
Questa, però, è barbarie, non è la chiesa, ma non è neppure civiltà.
L’autentico maestro non si limita a includere gli altri a parole, ma è intriso di pietas, assume su di sé il peso dell’altro fino al limite estremo della propria sopravvivenza, non è ebbro del proprio potere.
Il fondamento dell’obbedienza (necessaria) sta nell’ascolto e che cos’è l’ascolto se non la capacità, il dono si potrebbe dire, di tollerare l’affermarsi dell’umanità ferita dell’altro nel mio spazio altrettanto ferito?
Quale esempio ce ne dà san Benedetto nel momento in cui restituisce lo strumento nelle mani del Goto, dicendogli: "Ecco qui, seguita pure il tuo lavoro e stattene contento!". (Gregorio Magno, Vita di Benedetto, 6).
Come sappiamo le prime parole della regola ricalcano il libro dei Proverbi 1, 8 ascolta figlio mio la disciplina di tuo padre e non abbandonare la legge di tua madre.
Quali sono le radici di queste parole? Andiamo a leggere il versetto che immediatamente precede e troviamo quel detto che oggi fa storcere il naso: l’inizio della sapienza è il timore del Signore.
San Basilio nella prima omelia sull’Esamerone spiega che la sostanza del timore del Signore è analoga al timore filiale, cioè quel particolare sguardo, pieno di amore, che il bimbo riserva al padre al quale è naturalmente legato dall’amore (indipendentemente dalla qualità del padre che ha in sorte) e che, nel diventare adulto, diverrà pietas, quella magistralmente descritta da Virgilio.
Il padre, che non considera che il proprio punto di vista, è violento e non vede l’alterità del figlio, con ciò che ne consegue.
Nelle regole monastiche antiche, maestro e padre sono vocaboli intercambiabili, perché Insiste tra padre e figlio una pietas reciproca e lo possiamo costatare continuando nella lettura del primo versetto del prologo della RB. Il vocabolo ‘pracepta’ vuol dire sì: precetto, insegnamento, prescrizione, disposizione, suggerimento, norma, regola, comando e come recita il vocabolario Treccani: Nel tardo Impero romano fu una delle denominazioni dei decreti del prefetto del pretorio; nel medioevo significò un documento pubblico o in particolare il diploma regio o imperiale, ma Benedetto, forse proprio per la sua rudezza, lo inserisce tra l’ascoltare e l’invito a piegare l’orecchio del cuore[2].
Obsculta, o fili, praecepta magistri, et inclina aurem cordis tui.
Soffermiamoci sul termine inclina; il vocabolo non porta con sé l’idea di sottomissione, ma del volgere in basso, è l’idea del tramonto del sole. Cioè a dire, fletti, mi spingerei fino all’evangelico: ritornare come bambini.
Cosa volgo in basso, cosa fletto? Aurem cordis.
Masticando ogni giorno i salmi, san Benedetto avrà interiorizzato dai salmi l’immagine che l’inclina aurem è atteggiamento di particolare cortesia nel rapporto tra uomo e Dio (cfr Ps 16, 6; 30,3; 70,2 e altri), ma anche tra Dio e uomo (cfr Ps. 44,11; 77, 1b, 114,2e altrove).
Diceva Agostino nelle Confessioni: Ecco, le orecchie del mio cuore stanno davanti alla tua bocca, Signore (I,5).
Flettere le orecchie del cuore è un forte richiamo a una dimensione affettiva, non mi pongo davanti all’altro innalzando le mie difese (anche ovvie), ma piego quel sonar misterioso che mi accompagna nelle relazioni (e spesso le raffredda) e apro alla disponibilità il mio mondo interno.
Tutto questo Benedetto lo richiama implicitamente avendo in mente un altro versetto dei Proverbi (4,20) Figlio mio, ascolta le mie parole e, al mio parlare, porgi le tue orecchie.
Benedetto non inganna, ma precisa: admonitionem pii patris libenter excipe et efficaciter comple. Se il termine admonitionem può rimandare a una certa asprezza[3] è subito corretto con la qualità psicologica e affettiva del padre (pii patris), che richiama la devozione, come offerta di sé (del padre al figlio), da cui scaturisce l’invito: accogli con piacere tutto questo e realizzalo con efficacia (libenter excipe et efficaciter comple).
Benedetto ha messo nero su bianco un vocabolario della dolcezza, non del comando; un ‘parlare’ diffuso ai suoi tempi - che noi chiamiamo barbari!
Spesso si parla della civiltà dei monasteri, ma nel monastero, così come è stato nel gesto di Enea descritto da Virgilio, la civiltà è il contrario dell’ordine imperioso che distrugge (o vorrebbe distruggere) la memoria. In fuga da Troia in fiamme, Enea non ha strozzato il suo vecchio padre che si ostinava e stava fermo, ma se lo è caricato sulle spalle e ha preso per mano il giovane figlio.
Soffermiamoci ancora sulla dimensione dell’ascolto e interroghiamo quello che oggi è un convitato di pietra nella chiesa (in fiamme): l’Antico Testamento.
Si legge nel libro del Deuteronomio Se solo tu ascoltassi queste leggi… (Dt 7,12).
Il verbo è sh-m-a (ascoltare); di tutti i precetti contenuti nel Pentateuco (e che il giudaismo rabbinico sistematizzerà attraverso i 613 precetti [Mitzvot]) non c’è una parola che significhi ‘obbedire’.
Con il termine ‘ascoltare’ ci si riferisce all’ascolto, al prestare attenzione, all’obbedire, ma anche al comprendere.
In buona sostanza: l’obbedienza non è una virtù se è cieca e passiva. Benedetto comprende perfettamente questa pedagogia biblica e, citando Proverbi, prende per mano il discepolo (forse fuggito in monastero per chissà quale paura) gli insegna a riflettere, interiorizzare, rispondere.
Si provi a leggere il capitolo 58 sull’accoglienza dei fratelli, è un continuo richiamo alla verifica sulla consapevolezza e interiorizzazione necessaria a colui che desidera entrare in monastero per potervi rimanere in pace.
Dio vuole che comprendiamo le leggi che ci ha dato.
Benedetto ci offre all’inizio del Prologo un esempio di autentica lectio divina (che non è mettersi davanti a un libro e spremersi le meningi…); non solo le parole mettono in luce la sua personalità imbevuta di Sacra Scrittura, ma il suo vivere testimonia quanto sono diventate come il suo corpo: Chi non ama il suo fratello che vede; come può amare Dio che non vede? (1Jo 4,20). Non è l’amore una forma di conoscenza? E la conoscenza non è in primo luogo ascolto (l’uno dell’altro)?
Se solo tu ascoltassi queste leggi… Perché? Benedetto lo chiarisce immediatamente: ut ad eum per oboedientiae laborem redeas, a quo per inoboedientiae desidiam recesseras, perché tu possa ritornare attraverso la fatica dell’obbedienza a Dio, dal Quale ti sei allontanato attraverso l’inoperosità della disobbedienza.
C’è un gioco sottile in questa frase tra due coppie di parole: obbedienza/disobbedienza, fatica (zelo)/inoperosità. Il peccato di Adamo (Gn 3,5-6) è un peccato legato a una flessione della conoscenza, a un un venir meno all’ascolto della voce di Dio che è il fondamento della vita (Gn 1,3a/ Jo 1,1).
Non so cosa ne pensi san Benedetto del fatto che colleghiamo la sua Regola all’ora et labora, all’Opus Dei, alla lectio divina, alla trasmissione della cultura antica ecc.
Tutto ciò è nobilissimo, ma alla fine non centrale; l’essenziale Benedetto lo chiarisce appunto in questa seconda parte del primo versetto del Prologo: ritornare attraverso la fatica dell’obbedienza a Dio, dal Quale ti sei allontanato attraverso l’inoperosità della disobbedienza.
E’ questo il vero motore della Regola; altrimenti, la Regola, è solo un programma sociale tra gli altri.
La Regola ci dota di strumenti per riconoscere e inserirsi nella sacramentalità del mondo e permetterci, in questo modo, di raggiungere ciò a cui ogni uomo anela (oggi sempre più inconsciamente): riconnettersi con il suo Creatore.
Prima di terminare questa riflessione è importante accennare a un dettaglio che può passare quasi inosservato e che merita una pausa di riflessione. Come abbiamo visto la Regola esordisce con ascolta, figlio ‘mio’, le disposizioni del maestro. In un approccio così diretto e affettivo sarebbe naturale attendersi: le disposizioni del tuo maestro.
E’ ovvio che Benedetto parla di sé, cioè dell’abate, al quale dedica l’intero capitolo secondo, e non solo… Tanto è delicata la sua funzione.
Nel versetto due del capitolo secondo leggiamo: (L’abate) Christi enim agere vices in monasterio creditur. Parole che spesso sono tradotte così: crediamo per fede che tenga il posto di Cristo; in realtà il Santo sembra più prudente e sfumato perché scrive ‘si crede’ che (l’abate) tenga il posto di Cristo.
La ragione è forse la medesima per cui non dice il ‘tuo’ maestro; cioè l’abate è lì per ricordare e richiamare che l’unico maestro è Cristo, l’abate non Lo sostituisce, ne è al servizio.
Non a caso in un altro luogo della Regola (RB 64,13) Benedetto, che tanto potere sembra dare al superiore, gliene ne ricorda e determina con finezza il limite: suamque fragilitatem semper suspectus sit, tenga sempredavanti agli occhi la propria fragilità.
***
Abbiamo lasciato Enea arreso alla necessità di abbandonare Troia in fiamme perdendo tutto, ma con coraggio (rinvigorite gli animi [En I, 197] dice ai compagni avviliti).
Il famoso verso Cessi, et sublato montem genitore petivi, mi sottomisi e sollevato il padre mi diressi sui monti (En II, 804) si è come materializzato nel gruppo scultoreo di Gian Lorenzo Bernini (1618-9) che ne ha immortalato la scena.
Virgilio nei suoi versi celebra la grandezza e l’auctoritas di Roma di cui Enea è il simbolo.
E’, però, la Tradizione che legittima l’autorità la quale, per essere autorevole, se ne deve far carico (il padre sulle spalle) e tenere fermamente il figlio con la mano, il figlio che porta il fuoco che sempre ardeva a Troia, incamminandosi, Enea verso l’ignota Roma, il cristiano verso il Regno dei Cieli.
Verrebbe da immaginare che il bambino stretto al padre tremasse ed Enea, pare quasi di vederlo nella statua, ad incoraggiamento, dirgli: Obsculta, o fili, praecepta patris (magistri).
Chi detiene l’autorità deve in primo luogo farsi responsabile di sé, saper contenere il proprio caos interiore senza moltiplicarlo all’esterno, come in un circo.
Saper ascoltare, cioè avere la forza di far risuonare dentro di sé la voce sommessa di Dio che parla attraverso l’altro.
Tutto questo comporta una quota di solitudine, come Bernini descrive bene attraverso Enea; è la solitudine del doversi prendersi cura di sé, quando la pietas, divenuta fragilissima, sembra morire e la Fede spegnersi, ma Enea è anche lì a dirci che dalla città in fiamme ci si può salvare, non limitandoci ad essere morti vicino ai morti.
[1] Sarà soprattutto Dante, poeta sensibile alla corruzione della chiesa [che in primo luogo è corruzione della Fede], a riflettere sulla superbia della città di Troia, città che aveva dominato l’Asia minore e che scomparve a causa della sua presunzione; superba Ilion che fu combusta (Inferno I, 75) e nel Purgatorio (XII, 61) in cui ricorda Troia in cenere e in caverne. [2] L’espressione aurem cordis è comune nella letteratura precedente. Ad esempio, vedere Agostino, Serm. super Ps 113,2; Conf. 1.5; 4.11.16; 4.15.27, ecc.; Leone Magno, Serm. 29,1; Giovenco, Libri Evang. II.814; III.147. [3] I significati della parola sono: ricordo, avviso, avvertimento // ammonizione, richiamo, rimprovero, esortazione, castigo, punizione.