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Sondare le Ferite: Lo Svelamento del Cuore

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Sondare le Ferite: Lo Svelamento del Cuore

Oct 4, 2020
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Sondare le Ferite: Lo Svelamento del Cuore

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Nel 1572 dom Juste van Schoonhoeven monaco nella certosa olandese di Delft, a causa dei torbidi dovuti alle controversie religiose allora molto accese in quella zona, sfollò verso una cittadina vicina, ma fu riconosciuto e imprigionato a pane e acqua per fiaccarlo e fargli sconfessare la Fede.  Non cedette e quindi fu abbandonato ai pirati che in quel periodo razziavano quelle terre dove infierivano le lotte religiose.  Dopo essersi divertiti con lui, lo consegnarono a un ex canonico passato alla riforma.  Costui cercò di fargli mangiare carne ma dom Juste non accettò perché proibita dalla regola; neppure volle bere del vino in un calice perché lo riteneva una profanazione.  Il canonico apostata allora lo consegnò ai suoi uomini perché gli strappassero la lingua che aveva difeso la Fede cattolica.

Tre giorni dopo fu condannato a morte; mentre il carro sui cui era trasportato andava al patibolo una donna gridò: che ha fatto di male? Perché deve essere giustiziato?  I suoi aguzzini risposero: è un monaco, ecco il crimine.


Giunto sul luogo dell’esecuzione a dom Juste fu concesso un momento per pregare; si inginocchiò con le mani giunte, inchinò la testa e si prosternò di lato, alla maniera dei certosini: in quel momento morì (1 agosto 1572).  Aveva trentasette anni.


Gli aguzzini appesero il corpo per i piedi, ma l’ex canonico, vedendogli ancora il cilicio aderente al corpo martoriato, crollò in pianto e confessò la sua colpa.

Anche al lettore odierno appare evidente che i protagonisti di questo racconto hanno in comune un linguaggio che si esprime attraverso gesti, un rito si può dire, in grado di parlare a tutti.


Già i padri del deserto ricordavano a proposito dei sogni che sono lo specchio per il discernimento di quale sia veramente il tesoro che occupa il cuore(Mt 6,21), così i nostri gesti.

Se proviamo a osservare più da vicino il gesto di questo monaco per comprenderne il segreto, il primo elemento che ne emerge è il valore che il gesto ha in se stesso; in questo caso la prostrazione del monaco è un rito abituale per lui e manifesta l’opera spirituale del corpo.


Può apparire difficile per noi che ci siamo stabiliti come padroni della vita e non sentiamo più di essere debitori del nostro essere a Qualcun altro.

Un secondo elemento è correlato all’ex canonico: siamo ancora in un’epoca in cui, nonostante le lotte religiose fratricide, tutti condividevano una fede, anche se ormai interpretata diversamente.

Il terzo elemento che rappresenta l’aspetto più profondo del suo segreto è che la potenza di questo gesto/rito sta nel far uscire da se stessi, spingere verso l’altro; lo sguardo dei protagonisti (ma anche l’ignoto lettore che vi s’imbatte) è guidato altrove, all’origine della forza che sostiene il povero certosino; all’origine della potenza che converte l’ex canonico.


Riapre prospettive, offre una meta, alimenta la speranza.

Diventati del tutto insofferenti al timor di Dio (anche semplicemente al solo sentirne parlare) siamo immersi in un’epoca dissacrante e i gesti che produciamo oggi, il piccolo rito con cui entriamo in relazione con il mondo, sono di tutt’altra specie rispetto a quello espresso dal monaco certosino.

Cerchiamo di decifrare, ad esempio, un gesto/rito visto e rilanciato con enfasi dai mass media durante il recente lockdown.

Un vescovo vestito di bianco che cammina per le strade della città; ha con sé le guardie del corpo, i fotografi, ma non è preceduto dalla Croce di Cristo; in questa sua passeggiata si ferma in una chiesa in cui è conservato un Crocefisso, molto antico e ritenuto miracoloso, lo fa prelevare e lo espone nella sua piazza, sotto la pioggia che lo flagella.

Anche un gesto/rito come questo racchiude un segreto; in primo luogo non rimanda verso qualcos’altro, è del tutto autoreferenziale.


E’ pur vero però che di fronte al vuoto dell’uomo le pietre, gli oggetti, parlano: forse a qualcuno gli si è stretto il cuore vedendo questo povero Crocefisso battuto dalla pioggia e magari avrà versato una lacrimuccia e, infatti, mani pietose l’hanno inviato al restauro.

Come ogni gesto anche questa passeggiata contiene un secondo segreto: è espressivo di una feritas (ferocia) (Arrianorum feritas, riportavano gli antichi sacramentari/messali) anticamera della disperazione; una delle afflizioni dell’uomo contemporaneo.

Se così sono le radici del cuore che cosa possiamo fare dunque?  Limitarci a sopportare?  Soccombere a tanta spietatezza raccontata da giornali e televisioni con un linguaggio easy?

La storia è maestra di vita, riandiamo ancora ai gesti antichi; arrecano conforto e respiro per l’anima: un appoggio per affrontare il mondo.
Rendono lo spirito cauto, amichevole, limitato, aperto, ma non solo, forse.

Possidio, biografo di sant’Agostino, ci tramanda in questo modo gli ultimi giorni del grande vescovo:

“… era solito dire (Agostino) che, ricevuto il battesimo, neppure i cristiani e i sacerdoti più apprezzati debbono separarsi dal corpo senza degna e adatta penitenza.


In tal modo egli si comportò nella sua ultima malattia: fece trascrivere i salmi davidici che trattano della penitenza -sono molto pochi - e fece affiggere i fogli contro la parete, così che stando a letto durante la sua infermità li poteva vedere e leggere, e piangeva ininterrottamente a calde lacrime.
Perché nessuno disturbasse il suo raccoglimento, circa dieci giorni prima di morire, disse a noi, che lo assistevamo, di non far entrare nessuno, se non soltanto nelle ore in cui i medici entravano a visitarlo o gli si portava da mangiare. La sua disposizione fu osservata, ed egli in tutto quel tempo stette in preghiera. …


Conservando intatte tutte le membra del corpo, sani la vista e l'udito, mentre noi eravamo presenti osservavamo e pregavamo, egli - come fu scritto - si addormentò coi suoi padri, in prospera vecchiaia (1 Re, 2, 10). Per accompagnare la deposizione del suo corpo, fu offerto a Dio il sacrificio in nostra presenza, e poi fu sepolto.”


Ciò che suggerisce il brano è tutt’altro che easy, ma apre alla speranza. 

Agostino, cristiano di grande tempra, arrivato alla fine della sua vita ha i Vandali alle porte e la città che tanto ha amato e per cui tanto ha pregato forse intuisce che sarà distrutta.


Abbandonarsi nel momento della morte al senso di fallimento e smarrimento era un esito possibile: che fare dunque?


La sua via d’uscita fu paradossale ma geniale: riconoscersi come un pubblico peccatore.


Nei primi secoli della Chiesa i grandi peccati per i quali era necessaria un’assoluzione erano tre: omicidio, adulterio ed erosione della Fede (paganesimo, giudaismo ed eresia).


Commettere questi peccati poneva il cristiano fuori della Chiesa poiché aveva determinato con le sue azioni una frattura il cui esito era la scomunica che prima ancora di essere una pena comminata, era l’evidenza di uno stato di realtà autodeterminato.  


Facendo propria la scomunica, forse l’unico modo per vincere sentimenti altrimenti inaccettabili in quel terribile frangente dove moriva lui, ma anche la sua città e la sua chiesa, Agostino evita la disperazione.

I gesti come quelli del vescovo vestito di bianco lasciano intravedere una tentazione ancora più sottile di quella di Agostino, e più letale: il piacere della disperazione!  Camuffato con le ideologie mondane dell’ambientalismo, fratellanza universale ecc., esercita un potere seducente per stordire le menti e smarrire le anime.


E’ il peccato oggi accovacciato fino alla porta della nostra tomba (cfr Gn 4,7).

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