Siamo nell’epoca della prevenzione (salute, incidenti, pensioni ecc.) chissà, però, se si pone altrettanta cura alla corrispondenza tra quanto avviene nel nostro mondo interno e le parole che facilmente diciamo (e ancor più facilmente oggi) affidiamo alla rete.
E’ abbastanza semplice rendersi conto di come consideriamo inospitali domande che fanno capolino in momenti impensati e che tronchiamo intimoriti.
E’ un piccolo naufragio al quale preferiamo non porre attenzione, ma se accettassimo la fatica della consapevolezza, potremmo ascoltare alcune nostre parole che riescono a forzare il blocco divenendo per noi come segnali nella notte.
Talvolta questa poca luce riusciamo anche a scorgerla nelle parole di un maestro e se lasciamo loro uno spazio vitale ne avremmo in dono una piccola comprensione di ciò che noi stessi siamo.
Tra i tanti insegnamenti di quell’immensa opera che è il Commento morale a Giobbe di san Gregorio Magno leggiamo: Mettete il dito sopra la vostra bocca. Come a dire chiaramente: voi che sapete il bene che ho fatto e che considerate il male che soffro reprimete in voi anche la colpa delle parole e temete nella mia sventura i guai che vi attendono. Se è vero che con il dito distinguiamo ogni cosa, non è improprio indicare con il dito il discernimento (XV, XXXVII, 43 ed. it. Città Nuova 1994, vol. II pag. 469)
Discernimento è il termine saliente di questo passo. Non indietreggiamo, anche se questo termine è stato sporcato, come tante altre cose, in questi ultimi anni e tuffiamoci in quel lontano passato, consapevoli che, rettamente intesa, la nostalgia è un vero strumento rivoluzionario.
L’atto di porre il dito sulla bocca è abitualmente inteso come invito al silenzio. E’ realmente così?
Anche un santo come il grande Domenico, fondatore dei Predicatori, così proteso nell’annunciare il Vangelo/la Verità, fu spesso ritratto con il dito sulla bocca. Possibile che proprio lui, ardente predicatore, invitasse al silenzio?
Secondo l’intendimento di Gregorio il silenzio è un effetto secondario della necessità del discernimento e il dito sulla bocca ne è espressione simbolica.
Gli antichi abituati a una vita naturale e non virtuale o robotizzata possedevano una prospettiva rovesciata rispetto alla nostra.
Come abbiamo visto Gregorio invita a reprimere anche la colpa delle parole. Per comprenderne il senso è utile riflettere su un testo che è singolare interfaccia del pensiero gregoriano: la Regola di san Benedetto.
Se leggiamo l’originale latino scopriamo subito che una cosa è il tacere e altra il silenzio.
Noi invece tendiamo a sovrapporli con facilità più che tenerli distinti tra loro.
Fermiamoci a riflettere in primo luogo su un’esperienza che precede il tacere e il silenzio: l’assenza di rumore.
E’ una situazione che spesso coinvolge emotivamente. Lessi una volta un resoconto illuminante: un testimone presente nel 1921 al trasporto della salma del milite ignoto, racconta come durante il tragitto, a Roma, dalla stazione Termini a piazza Venezia, nonostante la presenza di migliaia di persone si sentiva non il silenzio, ma l’assenza di rumore, manifestazione di uno sgomento e di un dolore paralizzante.
Il silenzio è invece lo strumento per mantenere un atteggiamento di rispetto nei confronti degli altri; si può rimanere in silenzio e mantenere una vivace discussione interna; si può restare in silenzio e dialogare con il corpo (occhi, mani, piedi, espressioni facciali ecc). Il silenzio è anche una forma di (auto)educazione. In una società caratterizzata dal rumore, sotto il dominio di una intelligenza sempre più artificiale l’essere umano rischia di essere un corpo senza anima.
Il silenzio è uno strumento per guardare in se stessi, imparare a destreggiarsi dentro se stessi in compagnia della propria anima. Nel silenzio s’impara a conoscere il proprio dolore e, soprattutto, scendendo nella propria anima, s’impara a conoscere quella degli altri; s’impara a soffermarsi nell’anima dell’altro e guardare il mondo come lo guarda lui, e, sentendo il dolore che c’è in lui, comprendere che spesso giudicare è una via d’uscita per controllare l’ansia che quella sofferenza ci procura.
Il tacere, invece, è arte di discernimento e propedeutica al silenzio; tacere, nel contesto benedettino, è presupposto per quella dimensione che la Regola definisce come l’attitudine quaresimale del monaco (RB 59,1).
Tale attitudine è un’arte di sottrazione (subtrahat RB 59, 7), più che di eliminazione o contenimento, al fine di poter vivere in un clima d’intelligenza delle emozioni.
E’ interessante notare come questa sottrazione riguardi il mangiare, il bere, il parlare e la scurrilitas da tradursi non come trivialità volgare (senso che acquisisce dopo Agostino), ma come atteggiamento buffonesco, stile che per noi sta divenendo abituale nell’odierna pastorale ecclesiastica romana.
La Regola evidenzia la scurrilitas in più luoghi, segno che il problema era ancora rilevante in quel periodo; del resto i romani erano molto attratti da mimi e buffoni di ogni genere, ma già Quintiliano (ad.es. Institutio Oratoria, 11, 1, 30) nel regolare il modello educativo romano invita a fondare l’educazione e le capacità oratorie su qualità morali della propria vita e su un alto livello di formazione culturale. Idee analoghe sono espresse anche da san Paolo (Eph. 5,4).
E’ possibile, considerata la sua provenienza sociale, che Benedetto abbia interiorizzato questa forma mentis quando disegna l’ambiente monastico, quello che ai nostri giorni si ama definire la civiltà monastica.
Nel testo latino della Regola il termine silentium è usato quattro volte, mai nel capitolo sesto in cui si tratta della Taciturnitas.
Benedetto introduce la parola “silenzio” quando prescrive (RB 38,5) che durante la lettura in refettorio fiat silentium. L’uso del termine fiat con tutta la sua risonanza biblica non è casuale e forse per questo Benedetto dice che, in refettorio, non c’è spazio neppure per il bisbiglio (mussitatio) che è un sussurro molto lieve; efficace la rappresentazione che ne dà Torquato Tasso nella Gerusalemme liberata: quasi in bosco aura che freme, suona d’intorno un piccolo bisbiglio (GL, 10,36).
Secondo la Regola solo la voce del lettore deve essere udita mentre si mangia. Del resto il silenzio tra gli uomini è collegabile a un miracolo e si dice fiat perché in quel frangente, la possibilità di mangiare deve porci nella consapevolezza che il cibo è una benedizione di Dio, a suo modo un miracolo come ben si capisce quando comincia a scarseggiare o manca del tutto.
Un’altra ricorrenza del termine silentium la s’incontra nel capitolo riguardante la compieta (RB 42) che ha questo titolo singolare: che nessuno parli dopo compieta.
Subito nel primo versetto leggiamo Omni tempore silentium debent studere . Benedetto richiede che in ogni momento i monaci si dedichino con passione al silenzio, ma non attribuendo a questa richiesta quello che noi saremmo ci aspetteremmo: un significato spirituale.
Al capitolo (RB 48) relativo alle norme sul lavoro manuale quotidiano e, in specie, quando è previsto il riposo dopo la preghiera di sesta (la siesta), s’invita a osservare un silenzio assoluto finalizzato alla possibilità del riposo per che ne ha bisogno.
L’ultima ricorrenza si riscontra a proposito dell’oratorio del monastero (RB 52) dove è prescritto che i monaci ne escano con il massimo silenzio possibile, per non disturbare quanti vogliono rimanere.
Come appare evidente, il valore del silenzio è funzionale al rispetto delle esigenze materiali e spirituali degli altri, Benedetto appartiene a un mondo religioso che noi definiremmo adulto: non è ossessionato dal dover ricercare e trovare un ‘perché’ per ogni cosa…
La nostra necessità di spiritualizzare non è forse una sottile forma di razionalizzazione radicale, indice di un’incapacità/difficoltà a riconoscere, ciascuno, la propria dipendenza da Dio nel cui rapporto alcune azioni sono da compiere semplicemente perché si devono compiere.
E’ un mistero che sfida il compiacimento di sé della cultura moderna.
Se il silenzio non è un valore in sé, s’inizia a capire come mai Benedetto non ne parli quando affronta la taciturnitas che deve essere intesa, invece, come capacità di governare il proprio parlare e, questo parlare, non riguarda necessariamente gli altri (come nei casi sopra indicati in cui si prescrive la necessità del silenzio) ma un parlare soprattutto interno, prima che esterno.
Anche la sola mussitatio risulta un vero tarlo della mente e del cuore.
Le parole, poche, devono essere sudate e fin dal primo versetto del capitolo sesto, Benedetto spiega, citando il salmo 38 in cosa consista questo sudore. Ho detto: starò attento alle strade [che intendo percorrere] per non sbagliare con la mia lingua. La scelta di queste parole salmodiche non ha quel valore che potrebbe avere per noi oggi[1], né si pone come un’intrusione testuale. Nel mondo antico tale modo di procedere assume spesso, invece, il ruolo di una parte per il tutto. Gesù cita un versetto di un salmo ma il senso del discorso ricava significato dall’intero salmo.
Per comprendere la posizione che Benedetto propone del salmo 38 dobbiamo immaginarlo come ascolto di una confessione intima e segreta da parte di un uomo tutt’altro che ingenuo, che fa i conti con se stesso dopo aver soppesato i vari aspetti della vita e averne colto il senso profondo al di là delle illusioni. Non ha paura di far entrare Dio nella propria intimità e ha imparato che ciò da cui deve guardarsi, prima ancora che dagli altri, è dalla violenza che può esprimersi attraverso le proprie parole.
Perché Benedetto lo sceglie per introdurre il tema del tacere? Forse la scelta ha con sé reminiscenze della sua esperienza di vita? Perché questa preoccupazione sulla necessità del contenimento del parlare?
Proviamo a entrare nel salmo citato da Benedetto. Il testo si sofferma su uno scacco: il soggetto parlante si era proposto di custodire quelli che erano i suoi intendimenti per non sbagliare quando parlava. Era riuscito a trattenersi anche di fronte al peccatore che andava contro di lui, era riuscito a tacere, a tollerare un’umiliazione forse cocente, a vincere la tentazione del dire parole buone con il pretesto della carità, ma nonostante tutto il dolore percepito era peggiorato.
E’ una sofferenza interna che sembra scomposta quasi fino allo smarrimento di sé, si ha l’impressione, con il procedere del salmo, di trovarsi a mezzo tra un balbettio e un grido. Fammi conoscere che tipo di morte potrei avere, quanto mi resta di questa vita, non è possibile che la mia vita possa durare molto perché io sono niente, fumo (vanitas). Toccare il fondo della vacuità di tutto lo porta a quella sospirante affermazione (Ps 38, 7): e ora qual è la mia aspettativa, sei tu stesso, Signore, e presso di Te è la radice del mio io.
Dopo il lungo percorso di ponderazione sulla fragilità sostanziale di ogni aspetto della realtà ed essere approdato alla consapevolezza che è Dio la base di ogni cosa, parte la necessità e il desiderio della liberazione da tutto ciò che è vano, ripiegamento su di sé, allontanamento dall’Essere.
I colpi avversi che si sente piovere addosso hanno la logica del mondo transeunte, spingono alle lacrime più dolorose, quelle che scendono silenziose, e che il salmista con espressione colma quasi di ritegno dice con una espressione efficace: auribus percipe lacrima meas, che le tue orecchie possano cogliere il suono delle mie lacrime mentre scendono.
Gli ultimi versetti del salmo sembrano richiamare Giobbe e il suo grido di pietà: dammi, Signore,una pausa di refrigerio prima che me ne vada da un’altra parte… e non sarò più.
E’ legittimo pensare che Benedetto possa essersi rispecchiato, facendola propria, in questa esperienza del salmista durante gli anni dello Speco? Non lo sappiamo; possiamo, invece, immaginare come egli, fin dall’esperienza dello Speco, avendo sperimentato quale teatro turbolento può essere il cuore di un uomo, volesse indicare con il precetto del tacere un metodo per affrontare lotte interiori che possono atterrare.
Diamo uno sguardo alla Regola del Maestro[2], un testo di legislazione monastica di area sublacense databile circa trent’anni prima della Regola di Benedetto e che potrebbe essere, come alcuni pensano, una prima stesura di quella benedettina o forse un tipo di Regola praticata da Benedetto nel periodo in cui viveva a Subiaco.
Questa Regola è meno asciutta e giuridica di quella scritta a Montecassino giunta fino a noi.
Nel capitolo ottavo De taciturnitate discipulorum, et qualis et quanta debeat esse, il salmo 38 è appena accennato, ma tutto il capitolo si presenta come una sua esegesi di notevole efficacia spirituale.
Implicitamente è posto l’accento sulla grandezza del linguaggio, questo dono divino così qualificante l’essere umano, che può facilmente corrompersi e corrompere e impone all’uomo governarlo.
Anche in questo capitolo non è mai usata la parola silenzio (9 volte in tutta la Regola del Maestro e con lo stesso criterio della Regola di Benedetto).
Entrambe le Regole richiamano il ruolo dell’abate nel governo del parlare. In Benedetto rappresenta in modo plastico un forte richiamo alla sostanza dell’esperienza monastica: l’ascolto. Che altro non è, poi, che la riproposizione dell’esperienza biblica basilare, la grande preghiera: Shemà Israel - ascolta Israele.
Sappiamo che ne segue come risposta l’ ‘eccomi’ (Gn 22, 1b). Bisogna, però, essere stati in grado di ascoltare, aver compiuto un cammino di consapevolezza di sé perché la conseguenza di quell’ascolto è netta: Prendi il tuo unico figlio e offrilo in olocausto (Gn 22, 2).
Che contrasto con il presente, soprattutto ecclesiastico, dove al posto dell’ascoltare per comprendere e poter compiere, si preferisce ammaliare per confondere e portare alla rovina!
Tacere assume, dunque, un ruolo che rileva la dimensione terapeutica dell’esperienza religiosa. I primi monaci, non dimentichiamo, erano indifferentemente denominati ‘filosofi’ o ‘terapeuti’ nel senso che il mondo antico dava a quel genere di vita: non una creazione ideologica, ma una risposta al bisogno pratico sul ‘come’ vivere.
Il cammino dell’uomo è purificazione dello sguardo, affinamento della capacità di contemplare, sia nel senso di “guardare con ammirazione e raccoglimento”, sia nella sua accezione etimologica, dal latino contemplāri: “trarre qualcosa nel proprio orizzonte”.
Oggi un vento infero porta la chiesa a giudicare la vita contemplativa come un rampicante misero e temibile. Succede quando si è incapaci di affrontare la propria solitudine e si sente incombere un autentico vuoto interno e la paura conseguente si compensa con la ricerca del potere.
La cifra del cristiano contemporaneo che conserva la Fede è diventata la solitudine; la dimensione in cui si deve fare i conti con i propri limiti, in cui si porta il peso della minaccia dell’incomprensione che tende a insinuarsi nella sfera più intima per lacerare e confondere.
Compito dell’uomo, ma in modo precipuo del cristiano è occuparsi della propria interiorità che, nella sua essenza, è il tentativo di aprire la mano dell’anima perché in qualunque momento Dio possa prenderla facendone la sua sposa.
L’esortazione di san Benedetto al tacere e l’invito del papa san Gregorio Magno al discernimento nascono dalla consapevolezza dell’ineludibile dovere di prendersi cura dell’armonia tra parole e mondo interno.
Rimangono come un monito di tempi ormai lontani a una chiesa morente che non possiede neppure più il ricordo di ciò che fu il sogno del cristianesimo come via di accesso a Dio.
Questo, però, oggi, interessa ancora alla chiesa?
[1] La citazione è uno stigma del mondo contemporaneo, globalizzato, ma non integrato perché basato sul frammento. Lo sguardo più lucido sul nostro modo, non secondario, di ‘produrre cultura’ nell’ultimo secolo lo propone Walter Benjamin: Le citazioni, nel mio lavoro, sono come briganti ai bordi della strada, che balzano fuori armati e strappano l’assenso all’ozioso viandante (W. Benjamin, Strada a senso unico, Einaudi, Torino 2006, p. 61).
[2] Regola del Maestro, introduzione, traduzione e commento a cura di Marcellina Bozzi 0SB, Brescia, Paideia, 1995