Una lettera da un amico
Caro X,
un mio Parrocchiano ha partecipato a un funerale che è terminato con la cremazione e ha voluto condividere con me un po’ dello scompiglio della sua anima.
All’ora prevista si sono raccolti nella casa del morto in attesa del parroco, giunto trafelato per benedire la salma prima della partenza.
Siamo sempre di fretta in questo mondo che ha perso anche ciò che in fondo non esiste: il tempo.
Indossava un camice bianco con sopra una giacca vento. Ti confido che quell’immagine mi grattava l’anima come carta abrasiva perché quando sono costretto a indossare l’alba svolazzante mi appaio come Lazzaro, teso per afferrare una voce che non si sente più…
Sono state dette due preghiere di numero. Il Parroco si è fermato poco più del medico legale venuto per la constatazione di morte. Nessun’altra parola, c’era troppa fretta.
Nulla.
E’ seguito un viaggio non breve per raggiungere quello che si presenta come ‘Tempio della cremazione’.
Sul registro delle aziende, però, è censito nella sua realtà cruda: forno crematorio; e la cosa qualche brivido nella schiena l’ha provocato anche a me.
All’arrivo attendevano due giovani ragazze nerovestite che hanno brevemente illustrato la cerimonia. Si poteva scegliere di fare una lettura e, tra qualche sguardo smarrito, qualcuno ha suggerito di leggere un brano di Vangelo; la risposta è stata di fredda neutralità: “quel libro non l’abbiamo”.
Il mio Parrocchiano è un cristiano fervente e mi ha ammesso con un certo sgomento che lì per lì non ricordava nessuno dei testi della Scrittura che usiamo in queste circostanze.
Poi ha proposto il Prologo del Vangelo di Giovanni. Recuperato sullo smartphone.
Abbiamo cercato insieme di comprendere il significato di quella scelta insolita.
Avrei voluto dirgli che non possiamo più scontatamente parlare della Risurrezione come l’ultimo prodotto che ci resta da vendere all’ultimo minuto tra un applauso e l’altro.
Non me la sono sentita.
Il nostro orecchio ha perso la capacità di ascolto, certo per una nostra colpevole overdose di parole vacue.
Lui era sconsolato. Io suppongo invece che la sua sia stata un’intuizione sagace. In quel luogo le persone hanno l’anima paralizzata. Me lo sono rappresentato vagamente simile a una cappella fredda, fatta di muri che non hanno conosciuto consacrazione e occorreva impregnarli con parole che facessero memoria di Dio e della grande domanda dell’essere umano sulla vita, lì destinata solo alle fiamme e alla cenere.
Il Prologo era la scelta perfetta.
Ho ancora taciuto!
Al termine ci si doveva avvicinare alla bara per un ultimo saluto con il sottofondo musicale dell’Ave Verum di Mozart.
Era in attesa una piccola soddisfazione.
Mi ha raccontato che quell’inno tanto usato in chiesa (e da me sempre criticato come canto di comunione) gli aveva infuso una sensazione di voluta ambiguità. “Accidenti a Lei, Pievano” è sbottato.
Da parte mia quella musica è come il sorriso enigmatico della Gioconda e l’ho trovato non casuale in quel luogo, ripensando all’appartenenza massonica del divino Mozart.
Il discorrere del mio Parrocchiano riportava il suo disorientamento mentre la mia attenzione, ormai fluttuante, si confondeva con la luce del sole che riveste gli alberi spogli in queste giornate fredde.
A un certo punto le sue parole mi hanno restituito a lui: “…qualcuno diceva che così è tutto molto più igienico e anche la chiesa lo permette”.
Sono venuto giù su quell’anche! “E sì”, gli ho detto, “e presto pure l’anche cadrà...”.
Mi ha lanciato uno sguardo torvo.
Improvvisamente mi sono sentito vecchio e fallito. La colpa non è mai di qualcun altro, ma del nostro quieto vivere. Non significa niente essere pronto ognuno per suo conto; essere indignati, disgustati, avviliti è solo una debolezza. Dovremmo invece essere pronti per quel minuto preparato per noi. Non farci prendere, in quell’attimo, dalla vertigine che impedisce lo slancio e ci fa rimanere fermi.
Altrimenti invecchieremo inchiodati al ricordo di quella paralisi.
tuo
Don Aldo